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mercoledì 16 dicembre 2015

IL CASO FACCHINI

Bruno Facchini, operaio, che abitava ad Abbiate Guazzone (Varese) in Via Bainsizza 6, fu avvicinato da Dario Spada e Riccardo Germinario, del gruppo RIGEL 2001. In loro presenza, Facchini, pur con cortesia, ma con un’evidente reticenza rievocò i fatti così come si svolsero quella notte del 24 aprile 1950 in un campo distante circa duecento metri da casa sua. Fu attratto, disse, da uno strano scintillio e visto che era da poco cessato un violento temporale e che in quella località passava una linea elettrica ad alta tensione, il testimone voleva accertarsi che nessun danno fosse stato arrecato e che nessun pericolo incombesse sulle vicine abitazioni. Così decise di recarsi sul posto. Procedeva con precauzione, nel timore che vi fossero fili spezzati a terra. Stava per rientrare verso casa, quando la sua attenzione fu attirata da un più lontano e nuovo scintillio. Giunto fra un palo della corrente elettrica ed un gelso, vide l’ombra scura, di “un’enorme cosa” di forma quasi rotonda.
Appariva come una grossa palla schiacciata e sembrava toccasse terra soltanto con una scaletta posta esternamente, per la quale si accedeva ad una finestra illuminata, rettangolare e con portello aperto. La scaletta era sorretta da due specie di tiranti. La superficie dell’ordigno si presentava “quadrettata da strisce verticali ed orizzontali poste ad intervalli regolari”; attorno vi era una raggiera di tubi simili a quelli delle stufe, raggruppati a tre a tre e sporgenti per una cinquantina di centimetri. Facchini poté intravedere all’interno, per un chiarore che vi si diffondeva, un’altra scala, che conduceva ai piani superiori dell’apparecchio. Alle pareti si potevano notare tubi, bombole collegate in fila fra loro e manometri. L’oggetto di altezza di circa dieci metri e di uno spessore variabile dai quattro ai sei metri (?) fu osservato, per qualche minuto, a distanza ravvicinata: quattro o cinque metri.
All’esterno si videro tre o forse quattro individui. Due, sicuramente, presso la scaletta ed un altro su di una sorta di elevatore meccanico con basamento, colonna allungabile e piattaforma superiore. Quest’ultimo sembrava saldasse un mazzo di tubi esterni ed era lui, quindi, che produceva quello strano scintillio che rendeva illuminata la sezione in riparazione, la quale emanava dei riflessi metallici. Il “saldatore” era munito di scafandro e di maschera, come gli altri tre che, impacciati e lenti, si muovevano intorno allo scafo. Il loro equipaggiamento si poteva paragonare a quello dei palombari. Nello scafandro che alla tenue luce appariva di color grigio scuro, si apriva, all’altezza degli occhi, una specie di “maschera trasparente” che sembrava “contenere del liquido” e attraverso quella s’intravedeva un volto dalla carnagione molto chiara. Dal casco penzolava all’altezza della bocca un tubo di circa cinque centimetri di diametro e lungo approssimativamente trenta, terminante in un bocchettone. Era simile a quelli usati dai piloti d’aereo per l’ossigenazione. Ai lati della testa, il Facchini notò due auricolari simili a quelli dei radiotelegrafisti, ma leggermente più grandi. La statura di quegli esseri era di circa un metro e settanta e nell’aspetto erano simili agli umani.


In un primo momento, il Facchini, pensando di trovarsi al cospetto dell’equipaggio di un aereo sperimentale, in avaria, data anche la vicinanza degli aeroporti della Malpensa, di Vergiate e di Venegono, si fece avanti e chiese, a quella gente, se avessero bisogno di aiuto. Gli “uomini” compirono strani gesti emettendo anche dei suoni gutturali, intelligibili, come una specie di: “gurr... gurr”. L’osservatore ebbe altresì l’impressione che volessero attirarlo all’interno del misterioso veicolo, che intanto cominciò a emettere un rumore simile a quello di una grossa dinamo o di un gigantesco alveare. Fu allora che, dopo aver dato una rapida occhiata al suo interno, dovette convincersi di non trovarsi di fronte a un mezzo terrestre. Preso da un improvviso senso di panico, si dette alla fuga. Aveva percorso appena qualche metro, quando notò uno di quei tizi impugnare un oggetto che portava al collo e che poteva sembrare una macchina fotografica e puntaglielo contro. Si sprigionò un raggio intenso che lo investì colpendolo alla schiena con tale forza, da dargli l’impressione di essere colpito e spinto da una massa d’aria compressa che si abbattesse sul suo dorso con la stessa violenza di un corpo contundente. Il colpo gli fece perdere l’equilibrio e lo scaraventò a terra. Cadendo, andò a sbattere contro una pietra terminale, di quelle usate, nei campi, per stabilire i confini. Dolorante, intontito, spaventato, rimase dov’era, non osando muoversi. Parve, però che le creature non si curassero più di lui, dopo averlo allontanato, così anche se in preda al terrore ebbe modo di continuare ad osservare tutto quello che avvenne. A un certo punto, l’individuo che stava “saldando” sembrò aver finito il suo lavoro. Infatti, scese dall’elevatore, che smontato rapidamente, fu ridotto alle dimensioni di una cassettina e caricato sul mezzo. Anche gli esseri vi salirono e la scaletta portello fu alzata chiudendo ermeticamente l’ingresso. Il rumore, di cui prima si era parlato, sembrò aumentare sensibilmente e con uno “ciaf” simile ad un potente soffio, l’oggetto si mise in movimento, partendo velocissimo verso il cielo e scomparendo rapidamente alla vista dell’allibito testimone, che ripresosi, almeno in parte, dallo spavento, riprese la via di casa. Passò la notte insonne, gli sembrava di impazzire: in effetti, accusò a lungo lo choc.
 
 
Al mattino si accorse di aver smarrito il portasigarette e suppose che gli fosse sfuggito di tasca all’atto della caduta; quindi, tornò sul posto. Poté così rilevare, sul terreno, la presenza di quattro orme circolari, di un metro di diametro ciascuna e poste in quadrato alla distanza di sei metri l’una dall’altra. Frugando tra l’erba, sulla quale notò alcune zone bruciacchiate, trovò e raccolse diverse schegge di metallo, che ritenne dovessero essere i residui del lavoro eseguito da quello che stava sull’elevatore.
Dell’accaduto fu informata la Questura di Varese e furono effettuati sopralluoghi anche da parte di tecnici militari. Alcuni residui dei frammenti metallici furono pure analizzati e definiti metallo antifrizione (bronzo ad alto tenore di stagno), senza peraltro condurre a concreti risultati sulla risoluzione del caso e sulla natura dello strano veicolo.

2 commenti:

  1. Il loro equipaggiamento si poteva paragonare a quello dei palombari. Nello scafandro che alla tenue luce appariva di color grigio scuro, si apriva, all’altezza degli occhi, una specie di “maschera trasparente” che sembrava “contenere del liquido” e attraverso quella s’intravedeva un volto dalla carnagione molto chiara.

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