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domenica 18 novembre 2018

IL MESSIA




Una recente ipotesi sulla natura della Sindone, è esplicitata nel libro Il secondo Messia (1997) ad opera di Christopher Knight e Robert Lomas. Questi sostengono che l'immagine della Sindone riproduce la figura di Jacques de Molay, il grande maestro dell'Ordine templare.
I Cavalieri Templari (di cui, su questo sito si è già trattato ampliamente) erano un ordine cavalleresco formatosi in Terra Santa, dopo la presa di Gerusalemme nel corso della prima crociata nel 1099. Lo scopo primario della loro costituzione era quello di mantenere libere e sicure, da quel momento in avanti, le strade che avrebbero condotto fedeli e pellegrini a visitare il santo sepolcro, anche se il nucleo originario di soli nove adepti induce subito a pensare al pretesto per una "copertura". In effetti, i Templari avevano ben altre finalità: quando si erano insediati sulle rovine del tempio di Salomone stavano cercando rotoli e documenti segreti. Oggi sappiamo che i rotoli più famosi relativi alla Terra Santa sono quelli di Qumran, detti del Mar Morto, scoperti per caso nel 1947 da un pastorello arabo in una grotta. Il ragazzo ne aveva presi alcuni e grazie al cielo aveva resistito alla tentazione di bruciarli per farne delle torce. Lomas e Knight sostengono che i rotoli custoditi nel tempio e cercati dai Templari provenivano dalla stessa fonte letteraria, ma erano infinitamente più preziosi. La storia rivela che almeno uno dei templari tornò in Francia con qualche rotolo, il suo nome era Goffredo di Sant'Omer, il secondo in capo, dopo Ugo di Payen.
Ma di che parlavano questi rotoli tanto importanti?



Quelli del Mar Morto appartenevano alla setta segreta ebraica degli Esseni, noti anche come Nazariti. Li potremmo descrivere come Puritani ebrei. Vegani, rifiutavano i sacrifici animali e dunque respingevano la figura e gli insegnamenti di Mosè come ispirati da Dio. La setta era nata a seguito di una profonda scissione verificatasi fra gli Ebrei. Quando nel 587 a.C. il popolo ebraico era stato deportato dal re Nabucodonosor nell'esilio babilonese, era nata la leggenda e la speranza di un Messia, che li avrebbe ricondotti alla libertà perduta. Al ritorno a Gerusalemme, cinquant'anni dopo, un sacerdote di nome Zerobabele, che aveva fatto riedificare il tempio, era stato visto come il Messia e lui stesso badava bene a sostenere questa ipotesi, assumendosi le conseguenti responsabilità. Due secoli dopo, Alessandro il Grande conquistava la Palestina, affidandola al governo di uno dei suoi generali più fidi, Seleucide. Ma quando i conquistatori greci si erano azzardati ad innalzare sugli altari del tempio le statue di Zeus, era scoppiata la rivolta. Gli Ebrei sotto la guida di Giuda Maccabeo avevano dato vita a una guerriglia prodigiosa e alla fine, nel 164 a.C., il tempio aveva potuto essere riconsacrato al culto di Geova. La stirpe dei Maccabei si accaparrò così sia il potere regale, sia quello sacerdotale. Questa decisione aveva portato un gravissimo oltraggio ai discendenti di Zorobabele, che vedevano i Maccabei come degli usurpatori. Così, a cominciare dal 187 a.C. alcuni gruppi si erano staccati per andare a coagularsi in piccole comunità sulle rive del Mar Morto, le comunità di Qumran. Questa gente semplice, viveva in tende e usava le grotte come depositi e magazzini di approvvigionamenti. Erano noti anche col nome di Esseni ed erano guidati da un capo supremo che veniva chiamato Maestro di Giustizia. Allo scoppio della rivolta ebraica nel 66 a.C. gli Esseni, nel timore di vederli distrutti, avevano segretamente occultato i rotoli della loro religione nelle grotte del Mar Morto, nascondendo, secondo i due autori in questione, i più preziosi e importanti, nelle segrete del tempio di Salomone ritenute assolutamente impenetrabili.
Ecco quello che i Templari erano andati a cercare fra le rovine del sacro edificio. Ecco il "tesoro" che alla fine erano riusciti a scovare. Nel corso dei due secoli successivi a questo se ne aggiunsero altri, in oro, argento e di pietre preziose, al punto che, grazie a questa formidabile potenza economica, l'Ordine aveva assunto un peso a dir poco straordinario. I rotoli rintracciati nel tempio sarebbero state le attestazioni che garantivano a chi li avesse rinvenuti e quindi ai Templari, il pieno diritto a riformare la religione.



Uno degli aspetti più controversi della teoria proposta da Lomas e Knight sta nel fatto che, secondo loro, i capi esseni del primo secolo del nostro tempo erano un certo Gesù, poi noto come Gesù Cristo e suo fratello Giacomo. Gesù era, in realtà, noto come Gesù il nazarita e non nazareno, perché il villaggio di Nazareth non esisteva ancora. Nella comunità il titolo di Maestro di Giustizia toccava a Giacomo, fratello più giovane di Gesù.
Tuttavia, la Chiesa di Roma ha sempre negato che Gesù avesse fratelli o sorelle ma, anche nel Vangelo di Matteo troviamo una contraddizione evidente in 13:55 quando leggiamo:


“Non è questi il figliolo del falegname? Sua madre non si chiama ella Maria e i suoi fratelli Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi?”



Lomas e Knight sostengono che l'azione di Gesù non fu solo quella del predicatore di pace. Era sua intenzione anche scacciare i Romani e stava organizzando con altri una rivolta armata. Molti fra gli Esseni preferivano Gesù al posto del più radicale Giacomo. Sia Gesù, sia il cugino Giovanni Battista, erano considerati dei Messia. Alla morte di Giovanni, Gesù ne aveva ereditato il ministero (durato un solo anno) raccogliendo attorno a sé turbe di folla e predicando in luoghi remoti. Fino ad arrivare a compiere quello che fu per lui un errore fatale, ossia entrare a Gerusalemme in groppa a un asino, per dare compimento alla profezia di Zaccaria che diceva che un Re sarebbe giunto a cavallo di un asino. Poi aveva provocato disordini nel tempio e contestato furiosamente i mercanti, tanto che i Romani avevano posto una taglia su di lui e dopo aver arrestato il fratello Giacomo, lo avevano catturato nell'orto di Getsemani. Gesù fu arrestato, processato e condannato a morte.
Secondo Lomas e Knight, Barabba, il ladro che venne liberato al suo posto non era altri che Giacomo, suo fratello, considerato che Barabba era un titolo che stava a significare "il figlio del padre". Ma, In un manoscritto precedente al Vangelo di Matteo, leggiamo che il soprannome di Gesù sarebbe stato proprio Barabba (Clicca qui per leggere il post).
E così, mentre Gesù veniva ucciso sulla croce, Giacomo poteva tornare al suo posto di capo supremo degli Esseni. Da lì a trent'anni sarebbe stato assassinato dai sacerdoti.
Intanto, il corpo di Gesù era scomparso dalla tomba e si era incominciato ad insinuare che non era morto, ma era riuscito a sopravvivere alla tortura. 
 
 
Nella storia della Chiesa primitiva, San Paolo gioca un ruolo decisivo e fondamentale, in quanto riceve l'incarico di debellare gli ultimi aneliti di libertà dei soggiogati ma sempre frementi Ebrei. Siamo nell'anno 43, circa dieci anni dopo la morte del Cristo. La folgorante esperienza mistica della conversione sulla via di Damasco si verifica diciassette anni dopo. Sempre secondo Lomas e Knight, l'episodio non sarebbe accaduto presso Damasco in Siria, dove Paolo non aveva alcuna autorità, ma a Qumran, che veniva sovente chiamata Damasco. Probabilmente Paolo stava andando a Qumran per disperdere gli ultimi focolai della resistenza essenica ed è stato qui che ha ricevuto la folgorazione celeste. Per qualche tempo Paolo perde la vista e quando guarisce, pare che il “Cristianesimo” abbia fatto così presa su di lui da trasformarlo in uno dei suoi più grandi paladini. Questa nuova dottrina religiosa, in gran parte fondata e costruita proprio dall'ingegno di Paolo, sosteneva che Gesù era morto sulla croce per redimere l'umanità dal peccato originale di Adamo e che tutti coloro che credevano in Cristo ne sarebbero stati mondati.
Certamente a Giacomo e a tutti i Nazariti non parve vero che Paolo, il loro più accanito persecutore, fosse miracolosamente passato dalla loro parte e quando ebbero modo di confrontarsi con la sua versione del cristianesimo, non poterono fare a meno di contrastarlo: si riferivano a lui come al "grande mistificatore". In effetti, le due versioni ufficiali della nuova religione - quella militante di Giacomo e quella della "redenzione" di Paolo - sono e saranno oggetto, fino ai nostri giorni, di accaniti dibattiti. Ma la rivolta del popolo ebraico impresse ai fatti una violenta sterzata: Giacomo venne assassinato e la gran parte dei ribelli uccisi o esiliati.
Paolo, che stava lontano per predicare ai gentili, si salvò e con lui prevalse la sua ipotesi di cristianesimo.
Nei due secoli che seguono le fortune dei cristiani ondeggiarono, anche se fu ancora la persecuzione il segno distintivo di quel periodo. Poi, all'improvviso, il potere passò nelle loro mani. Questo fatto decisivo accade nel 312, quando l'imperatore Costantino proclamò il cristianesimo religione ufficiale dell'impero.

domenica 11 novembre 2018

LE ORME DEL DIAVOLO


L'inverno del 1885 fu eccezionalmente severo per il sudovest dell'Inghilterra, regione solitamente dai climi niente affatto rigidi. La mattina dell'otto febbraio, il signor Albert Brailsford, preside della scuola del paesino di Topsham, nel Devon, si avvicinò alla finestra del salotto per vedere se nella notte era nevicato. Di colpo, la sua attenzione fu attratta da una linea di impronte che si sviluppavano lungo la strada che conduceva al villaggio. A prima vista si sarebbero dette normali impronte di un cavallo ferrato ma, a meglio osservare, si capiva che non poteva essere, dal momento che erano perfettamente disposte lungo un'unica linea perfettamente diritta, come se le zampe dell'animale fossero state messe una davanti all'altra. Fosse stato un cavallo avrebbe dovuto avere una sola gamba sulla quale saltellare. Se invece la misteriosa creatura possedeva due zampe, procedeva con grande attenzione, come un equilibrista su un filo teso. Ma ciò che ancor più era curioso, consisteva nel fatto che le impronte, non più lunghe di dieci cm, distavano fra loro soltanto 16 cm. Infine, risultavano nitidissime, come se fossero state ottenute immergendo nella neve una sagoma di ferro riscaldato.
 
La curiosità prevalse e i cittadini di Topsham seguirono le orme fino alla fine del percorso, che andava a terminare contro un muro di mattoni. Ma le sorprese non erano finite. Le impronte infatti riprendevano proprio al di là della parete, senza però che la coltre di neve accumulatasi sulla parte alta del muro risultasse in qualche modo calpestata. Poi le impronte raggiungevano un covone di grano, per ritrovarsi oltre, senza che, anche in questo caso, si notasse il passaggio di qualche corpo pesante. E non bastava ancora. Passavano sotto un cespuglio di rosa spina e sopra alcuni tetti. Insomma, era come se qualche burlone equilibrista si fosse divertito durante la notte a costruire un rompicapo per i poveri villici. L'ipotesi di un giocherellone venne però subito scartata perché le orme sembravano non finire mai. Ne vennero trovate ancora a parecchi chilometri di distanza dalla periferia del paese, lungo la campagna del Devon. Sembravano procedere in modo disordinato ed erratico per andare a toccare alcune altre piccole città e villaggi: Lympstone, Exmouth, Teignmouth, Dawlish, fino a Totnes, vicino a Plymouth. Se si trattava davvero di un burlone equilibrista doveva aver fatto una bella faticaccia per coprire più di cinquanta km nel gelo della notte e in mezzo alla neve fresca e alta. Per di più doveva avere anche una certa fretta, visto che le impronte si fermavano sovente sul limitare delle porte, ma solo per invertire la direzione e dirigersi nuovamente altrove.
Ad un certo punto, avevano valicato l'estuario del fiume Exe, in un tratto presumibilmente compreso fra Lympstone e Powderham, ma al di là, vale a dire a Exmouth, non se ne incontravano più. Ovviamente, in tutto quell'itinerario non esisteva alcuna logica: era un percorso fatto a casaccio.
In certi punti, le impronte di "cavallo" presentavano una fenditura nel mezzo, facendo pensare a uno zoccolo diviso. Siamo in piena era vittoriana e nessuno fra i contadini di quei luoghi dubitava dell'esistenza del diavolo. A questo pensiero, quella notte, tutti chiusero accuratamente le porte di casa, tenendo i fucili a portata di mano. 
 
Ci volle una settimana prima che la notizia venisse riportata dai giornali. Il primo a raccontarla fu il londinese «Times» il 16 febbraio 1855, aggiungendo che erano stati molti i contadini a trovare le misteriose tracce nei cortili delle loro case. Il giorno dopo era toccato alla «Plymouth Gazette», la quale riportava l'idea di un prete che suggeriva trattarsi di un canguro, dimenticando che il canguro ha zampe artigliate. Il «Flying Post» invece, indicava in un uccello la probabile causa del misterioso percorso di orme. Teoria immediatamente smontata da un altro articolo comparso su «Illustrated London News» in cui si faceva notare che non esiste al mondo alcun uccello munito di zoccoli ferrati!
La stravaganza e la difformità di tutte queste spiegazioni, così stralunate e assurde, si giustificava con l'obiettiva difficoltà di trovare una risposta al mistero. La questione meno comprensibile, quella che sfidava ogni ipotesi, stava nella singolare disposizione delle impronte, una in fila all'altra secondo una linea retta, come se fossero state lasciate da un animale dotato di una sola zampa.
L'ipotesi più plausibile venne proposta, un secolo dopo, da Geoffrey Household, il quale nel 1985 pubblicò il libro “The Devil  Footprints” nel quale furono raccolte tutte le testimonianze legate a questo caso misterioso. Ecco come l’autore giustifica la possibile, logica, spiegazione dei fatti:


“Sono propenso a ritenere che quella notte dal centro del porto militare di Devonport si sia innalzato, forse a seguito di qualche disguido, un pallone sonda. Libero dagli ormeggi, ha potuto sorvolare la zona senza alcun controllo. Dall'oggetto pendevano due sacchetti appesi a delle funi. Sono stati questi pesi a lasciare le impronte e questo spiega anche come mai ne sono state trovate pure sui tetti delle case ...” 
Si tratta senz'altro di un'informazione importante che potrebbe spiegare la dinamica di ciò che successe. Ma, pur dandola per buona, c'è almeno un dettaglio che non quadra: la serie di impronte fanno ampi, indecifrabili giri fra i centri di Topsham e Exmouth. Un pallone sonda non si sarebbe "comportato" in un modo tanto disordinato. Avrebbe, invece, seguito un percorso lungo una linea retta, nella direzione del vento prevalente, che quella notte, detto per inciso, soffiava da est.
Un problema fu, come già si è detto, il grave ritardo con cui i mass media presero a interessarsi del problema. Nel frattempo, infatti, la maggior parte degli elementi salienti del caso erano già stati alterati. Per esempio, sarebbe stato interessante sapere se la neve caduta quella notte era stata la prima neve di quel febbraio del 1885. Quell'anno l'inverno era stato particolarmente rigido e non è da escludere che molti piccoli animali come ratti, conigli e tassi avessero interrotto il letargo per uscire anzitempo dalle tane a caccia di cibo.
Una lettera inviata al giornale «Plymouth Gazette» datata 17 febbraio inizia con queste parole: 


“La notte di giovedì 8 febbraio è stata caratterizzata da un'intensa nevicata, cui ha fatto seguito pioggia e un forte vento da est e una rigida brinata la mattina.”  
Certamente, la notte in giro per la zona c'erano molti piccoli animali a caccia di cibo. Ma soltanto il venerdì mattina, sul nuovo e fresco mantello di neve, era stato possibile osservare le impronte. Queste, oltre tutto, avrebbero potuto essere rimarcate dalla pioggia che aveva ulteriormente scavato nel manto nevoso, per solidificarsi la mattina per la forte brinata. Questo, per esempio, spiegherebbe bene l'impressione che molti osservatori ebbero di impronte come "impresse a viva forza" nella neve. Però se il terreno era già ricoperto di neve prima della notte dell'otto febbraio ecco che allora pure questa plausibile teoria deve essere abbandonata. Quand'anche la si desse per valida, non si comprende come mai alcune impronte siano state ritrovate sulla sommità dei muri, sui covoni, sui tetti. Insomma, un bel rebus. Un mistero che, dopo tanti anni, continua a restare insoluto.

venerdì 9 novembre 2018

IL SEGRETO DI OMERO

 
All'età di venticinque anni Samuel Butler aveva deciso di scrivere un'opera lirica intitolata Ulisse. (Era un compositore dilettante, ma bravo). Era convinto che, per farlo, fosse necessario rileggere l'Odissea, di cui aveva ancora non poche reminiscenze dal tempo della scuola. E così aveva fatto. Trovando la poesia di Omero di facile interpretazione, si era dunque messo a tradurre l'opera in prosa. Mano a mano che procedeva nel lavoro si rese conto della strana sensazione che lo conduceva a riconoscere nell'opera di Omero due diversi momenti. Mentre l'Iliade raccontava gesta e fatti straordinari di grandi eroi, l'Odissea, in confronto, si occupava di cose decisamente più terrene. Insomma, più che un racconto epico sembrava un romanzo, in cui i veri protagonisti erano persone normalissime. Una narrazione piena di umanità.



L'Odissea inizia presentando Telemaco, il figlio di Ulisse, che si mette a caccia di notizie per rintracciare il padre dato per disperso dopo la guerra di Troia. Per avere qualche informazione utile si reca presso il re Menelao, che vive felice con la sua sposa Elena di Troia. La scena prettamente domestica ha il tono dell'intimità più schietta. È in questa atmosfera idilliaca e tranquilla che Telemaco viene a scoprire che il padre è trattenuto dalla ninfa Calipso. Ora la scena si sposta sull'isola di Calipso, dove a Ulisse viene concesso di partire (grazie all'intervento decisivo di Giove). Ma il dio Nettuno, che odia cordialmente Ulisse, scatena una tempesta che scaglia il povero eroe sulle spiagge di una terra chiamata Scheria. Dopo il naufragio, viene trovato sul litorale dalla giovane principessa Nausicaa, figlia del Re del posto, che lo conduce a palazzo. Qui, nel giusto tono, Ulisse racconta che cosa gli è capitato dopo aver lasciato Troia. A questo punto si inserisce una storia nella storia, una sezione che costituisce la parte predominante dell'intera opera.



Butler rimase impressionato dalla grande umanità dell'episodio di Nausicaa e dai molti riferimenti intimistici, confermandosi nell'idea che il poema più che un racconto epico era un romanzo dai toni profondamente umanistici. Qualche capitolo oltre, dopo l'incontro coi Ciclopi, il dio del vento Eolo e i cannibali Lestrigoni, Ulisse approda sull'isola della maga Circe, che muta i suoi uomini in porci. E mentre leggeva i versi dedicati a Circe, Butler fu colpito da una intuizione: Circe era un personaggio che non apparteneva alla penna di un uomo, ma di una donna, per di più, una giovane donna. Una lettura ancora più approfondita lo convinse sempre di più. Paragonati con i personaggi femminili, quelli maschili non reggono al confronto: sono le donne che hanno il tocco magico.
Butler osserva inoltre che mentre l'autore dell'Odissea mostra una profonda conoscenza e una grande sensibilità per le questioni femminili, non si rivela altrettanto bravo quando deve affrontare quelle maschili, soprattutto quando parla di pescatori e contadini. Quale marinaio porrebbe mai il timone sul fronte della nave? Quale uomo di mare potrebbe mai credere che una trave stagionata possa essere derivata da un albero novello? Oppure ancora che il vento sibili sul mare? (Fischia sulla terra, per la presenza di ostacoli). Quale uomo con un minimo di conoscenza di pastorizia farebbe mungere le pecore a un pastore prima di mandarle a nutrire, con le mammelle svuotate, i loro piccoli? Quale cacciatore scriverebbe mai che il falco trasporta la propria preda sulle ali? Insomma, l'autore dell'Odissea incorre in molti errori simili a questi. Butler sostiene che è per questo che non può essere un uomo, ma una donna e per di più giovane.



Ora, ammesso che per amore di discussione si accetti l'ipotesi che l'Odissea sia stata scritta da una donna, certe cose diventano ovvie. Primo, doveva disporre di molto tempo libero e per una donna dell'antica Grecia non poteva essere così: la vita era piuttosto dura. Quello di cui gli storici sono convinti è che la vita nell'antica Grecia fosse estremamente parca e povera, con una gran parte della gente costretta a vivere con una dieta di olio e verdure, solo raramente interrotta con qualche pezzo di carne di montone. Dunque, per una donna poter disporre di tempo libero da dedicare alla scrittura era una cosa impossibile, salvo che appartenesse all'aristocrazia, una donna che sapesse scrivere e potesse disporre di servitori che accudissero alle faccende di casa (anche se sappiamo che persino Nausicaa era scesa in spiaggia per fare il bucato).
Inoltre, una donna greca difficilmente avrebbe però potuto disporre di una conoscenza estesa dei fatti della vita (in quei tempi le ragazze se ne stavano chiuse in casa) e dunque ci sarebbe da attendersi che come sfondo delle avventure da lei cantate si ispirasse a quello del suo ristretto contesto di vita. Secondo Butler tutti i personaggi femminili del poema - Elena, Penelope, la regina Arete (la madre di Nausicaa) - sono fondamentalmente la stessa persona e lo stesso può dirsi per gli uomini: Ulisse, Nestore e Menelao. E se, come tutte le giovani narratrici, anche l'autrice dell'Odissea si descrive in uno dei personaggi del racconto, ebbene quando abbiamo da scegliere fra Nausicaa, Circe e Calipso è sulla prima che cade la nostra scelta; mentre, probabilmente la regina Arete e il re Alcinoo sono le rappresentazioni dei suoi genitori.



Ma, come abbiamo detto, se la nostra giovane autrice conosceva solamente il suo piccolo mondo, dove può aver tratto idee e ispirazione per descrivere in modo tanto convincente i viaggi di Ulissè? Quasi certamente descrivendo i posti che le erano noti trasformandoli nella terra di Polifemo, Circe, dei Lestrigoni e così via. In altre parole, se fosse mai possibile risalire con precisione ai luoghi in cui la nostra autrice "Nausicaa" visse, sarebbe possibile riconoscere la geografia del poema.
Ora, Nausicaa abitava in una terra chiamata Scheria, parola che significa "terra che si protende", vale a dire, stando ad Omero, una penisola che si protende nel mare, la terra del popolo dei Feaci. Quando il nudo Ulisse approda alle loro sponde la giovane gli offre cibo e abiti e quindi lo istruisce su come raggiungere la casa del padre dicendogli: 

"Troverai la città distesa fra due porti, collegati fra loro da una stretta striscia di terra."
Più oltre, quando i Feaci hanno ormai condotto Ulisse alla sua patria Itaca, il sempre irato dio del mare Nettuno fa naufragare anche la loro nave mandandola a sbattere contro uno scoglio che si erge proprio all'ingresso del porto. Butler si accorse così di poter disporre di alcune indicazioni importanti sulla terra di Scheria: si trattava di una penisola che si protendeva nel mare aprendosi su due porti collegati da uno stretto lembo di terra, uno dei quali presentava alla sua imboccatura una grande roccia simile a una nave. Da quel che si dice nel testo, sembra inoltre che Ulisse raggiungesse la terra dei Feaci proveniente da oriente, così che il porto avrebbe potuto trovarsi sul versante occidentale. Recatosi al British Museum, Butler aveva consultato alcune mappe della Grecia e dell'Italia, alla ricerca di una costa occidentale che presentasse un promontorio caratterizzato da due porti, uno per lato. Ne trovò uno soltanto. Era la città di Trapani, sulla costa occidentale della Sicilia. Studiando più a fondo Trapani e la sua collocazione geografica, Butler si convinse ancora di più che proprio questa fosse la patria della giovane Nausicaa. Era il solo porto occidentale - compreso nell'area fra l'Italia e la Grecia - che rispondesse appieno a quelle caratteristiche. C'era anche una montagna, il monte Erice, che sovrastava il sito e nel racconto si narra come Nettuno avesse minacciato di seppellire la città sotto la massa di una grande montagna.



Due fra i primi studiosi di storia greca, Stolberg e Mure, dissero di aver identificato nel monte Erice la terra dei Ciclopi. Mentre lo storico greco Tucidide, scrivendo nel 403 a.C., già aveva menzionato la Sicilia come probabile terra dei Ciclopi e dei Lestrigoni. Nell'Odissea ovviamente queste avventure accadono in luoghi lontani dalla dimora natale di Nausicaa, ma quanto di più naturale per una giovane scrittrice riportare ai suoi luoghi tutte le avventure vissute da Ulisse?
Butler pensò che il passo successivo sarebbe stato visitare Trapani. Cosa che fece nel 1892, trovando la grande gratificazione di riscontrare che ogni cosa combaciava perfettamente con le sue osservazioni. Certo, all'epoca uno dei due porti era rientrato nell'entroterra ed era stato trasformato in una salina, ma era più che evidente che quel sito al tempo di Omero avrebbe benissimo potuto essere un porto. Per di più, lungo le dolci pendici del monte Erice a pochi chilometri di distanza, c'era una vasta cavità naturale che i nativi da tempo immemorabile chiamavano "grotta di Polifemo" e nei pressi dell'ingresso del porto volto a settentrione si ergeva proprio una grande roccia a forma di nave. A questo punto Butler avvertiva con sempre maggiore certezza di essere nel giusto. Anche la descrizione di ltaca, la patria di Ulisse, sembrava non corrispondere affatto a quella reale. Nell'Odissea, Omero la descrive come «alta sul mare» con un ampio orizzonte aperto verso occidente. La vera ltaca invece a ovest è quasi completamente "oscurata" dalla vicina e più grande isola di Samo (oggi Cefalonia). Se però Omero avesse descritto il piccolo isolotto di Marettimo sito proprio davanti alla bocca del porto di Trapani, allora le cose avrebbero coinciso assai bene.



Un lungo viaggio in Sicilia convinse Butler che la sua misteriosa autrice, una donna siciliana, altro non aveva fatto che adattare le fantasiose vicende del viaggio di Ulisse agli sfondi e alla geografia dell'isola, della terra che ben conosceva. Lo stesso Ulisse racconta la partenza dall'isola di Citera, appena a sud della Grecia e di come forti venti gli avessero impedito di fare rotta verso nord per raggiungere l'isola avita e lo avessero invece scaraventato, lui e i suoi compagni, nella lontana terra dei mangiatori di loto (Lotofagi), che per molti studiosi sarebbe da collocare nell' Africa settentrionale. Nell'ipotesi di Butler questa geografia è ben diversa. Ulisse, infatti, puntando verso nord aveva in vista la Sicilia, aveva cacciato le capre dell'isola di Favignana (nota agli antichi appunto come l'isola delle capre, o Egusa), quindi era sbarcato in Sicilia, dove aveva consumato l'avventura con il ciclope Polifemo. Poi erano salpati puntando al nord verso l'isola di Eolo, il dio dei venti, che Butler identifica con la piccola isola di Ustica. Il sito di Cefalù, sulla costa settentrionale, corrisponderebbe alla terra dei Lestrigoni, i mangiatori di uomini. Lo stretto, dimora di Scilla e Cariddi, si trovava invece nella parte orientale della costa, nei pressi dell'attuale grande città di Messina. Alla fine di questo periplo, Ulisse aveva incontrato la ninfa Calipso, signora dell'isola di Pantelleria. Da qui aveva fatto rientro a Trapani o, meglio, all'isolotto di Marettimo: l'Itaca di Omero.

sabato 3 novembre 2018

AMY: L'ALIENA


Nel 1993, il giornale americano Weekly World News, pubblica una sensazionale notizia: nel 1987, un disco volante precipitò in un posto imprecisato nel territorio degli USA: vennero recuperati i corpi di quattro esseri, umanoidi, di cui uno soltanto vivo.
Intanto, la foto di un piccolo essere che, a prima vista, appare un neonato cominciò a girare sul web. Questo è l’inizio della vicenda di Amy, la bambina aliena adottata dal governo americano.
 
Il mistero di Amy è uno dei più interessanti del panorama ufologico: secondo quanto dichiarò il giornale, all’età di sei anni, la piccola conosceva già diciassette lingue, arrivando a un quoziente intellettivo di 190.
Ma questa storia può essere  vera?
L’ufologo italiano Pablo Ayo, che ha analizzato la foto della presunta neonata aliena, ha notato, come prima cosa, che l’incubatrice in cui Amy era custodita risale alla fine degli anni ’80: a quel tempo non esistevano ancora le tecnologie fotografiche capaci di modificare l’immagine. In altre parole, esaminata la foto, ha dichiarato che non si tratta di un falso modificato attraverso il Photoshop. Quello che avvenne successivamente, è qualcosa di ancora più incredibile: nell’anno 2000, Weekly World News uscì con una sensazionale notizia: affermava che l’esercito americano era stato contattato dagli extraterrestri che avevano richiesto la restituzione di Amy. I militari rifiutarono, perché ritenevano che la creatura, ormai integrata nel nostro mondo, non sarebbe riuscita a superare il trauma dovuto al distacco. Purtroppo, il Weekly World News non è un giornale affidabile: è celebre per i suoi sensazionali articoli che molto spesso nascondono delle vere e proprie bufale.
 
Allora, se i militari non l’hanno rilasciata, dove è finita Amy?
Stando ad alcune ipotesi, l’entità aliena adesso avrebbe più 31 anni, con un quoziente intellettivo molto alto. Le sue conoscenze potrebbero essere universali, ed Amy sia da considerare come “una risorsa” al servizio degli Stati Uniti. Amy, in parole povere, non sarebbe altro che una prodigiosa “consulente” per il Governo americano. E questo darebbe forza anche a un’altra ipotesi: i militari vennero effettivamente contattati dagli extraterrestri, ma rifiutarono di rilasciarla perché i segreti della sua mente interessavano chi  era al comando. Siamo nell’ambito delle teorie del complotto.
Però verrebbe da chiedersi: se gli alieni sono padroni di una tecnologia senza eguali, per quale ragione non l’hanno usata per liberare Amy?
A questo punto, non possiamo fare altro che dubitare dell’intera vicenda.
Ciò che ci rimane è una foto, ritenuta autentica, di una neonata aliena che con i suoi occhioni sembra guardare chi si trova attorno a lei, interrogandosi su quello che le è accaduto e del mondo che, da quel giorno, l’ha adottata.