Uscii, lasciando in casa le donne. Scesi nello scantinato, caricai sul cassone dell’Ape degli attrezzi da scavo, misi dell’altra roba in un sacco e partii. Mi fermai sotto casa di Carlo e suonai ripetutamente il claxon. Carlo si affacciò dalla finestra, mi vide, vide gli attrezzi sul cassone e corse giù, pensando che fossi impazzito.
- Se ti fermano con questa roba passi un guaio, lo sai?
- Salta su, è un’emergenza.
- Emergenza un cavolo! Sei recidivo. Se ci fermano con questa roba finiamo dentro tutti e due! Che, vuoi andare a “scavare” in pieno giorno?
- Antonio è nei guai. Maria è arrivata a casa piangendo: cosa dovevo fare, avvertire le forze dell’ordine, così lo arrestano? Andiamo!
Borbottando qualcosa d’incomprensibile, Carlo prese anche lui posto in cabina e partimmo alla volta dell’Antro. Ci arrivammo nel primo pomeriggio. Era inverno: calcolammo che tra due, tre ore al massimo, sarebbe arrivato il crepuscolo; ma non potevamo rimandare. Ci guardammo intorno, c’erano solo dei contadini, troppo lontani e troppo occupati: non sarebbero venuti a curiosare. Ad ogni modo, ci avrebbero scambiati per braccianti intenti a far legna da ardere: l’Ape si prestava bene al camuffamento. Passammo molto tempo a fissare con perizia corde e carrucole. Ero deciso a scendere da solo, Carlo sarebbe rimasto. Ci avrebbe tirato su, c’era il caso che Antonio fosse ferito ed impossibilitato ad arrampicarsi. Calò giù una lampadina appesa ad un lungo cavo, io raggiunsi l’Ape e ne fissai i morsetti ad un grosso accumulatore da dodici volts.
- Il filo è corto – sentenziò Carlo – non riesce neanche a toccare il fondo della caverna; forse dovresti portare il “tre ruote” più vicino.
- Non fa niente. Vedrò la luce appesa, anche da lontano e così saprò sempre dov’è la corda per risalire. - Gli risposi.
Intanto, tirai dal sacco una potente torcia a pila. Indossai un gilè, di quelli muniti di molte tasche che cominciai subito a riempire. Tra l’altro, portai con me un’altra torcia più piccola ed un revolver.
- A cosa ti serve? Se spari un colpo con quella rivoltella c’è il rischio che tutta la volta ti crolli addosso!
- Lo so. Diciamo che è un’arma psicologica: mi rassicura!
- Tu sei matto.
Non credo che dicesse sul serio; al posto mio l’avrebbe portata anche lui, specie lì sotto.
- Tieni ben ferma la fune, mentre scendo e mi raccomando, occhi ed orecchie aperte; se mi senti gridare tirami su alla svelta! – Precisai.
Subito dopo scivolai giù lentamente lungo la fune.
- Tranquillo, aziono la leva e butto giù il contrappeso: so come si fa.
Mi chiesi se quel congegno avrebbe funzionato: non lo avevano mai usato e non c’era stato il tempo di provarlo. Era costituito da un grosso masso legato alla corda collegata ad una carrucola. Il masso sarebbe stato spinto nel vuoto tramite un semplice congegno, una leva, e avrebbe trascinato la corda azionando la carrucola. All’altro capo della corda c’era appeso il carico, in questo caso, composto da me e da Antonio. Un sistema simile a quello usato per gli ascensori dove il surplus d’energia non sarebbe stato fornito da un motore elettrico, bensì dalle robuste braccia di Carlo. L’unico dubbio era posto dal masso, molto pesante, messo in bilico sul precipizio. L’avevamo alzato in due, era più pesante di me, ce l’avrebbe fatta Carlo a smuoverlo da solo, anche disponendo dell’ausilio di una leva?
Intanto avevo raggiunto il fondo della caverna o meglio, la cima della montagna di detriti che gli uomini e l’acqua, col passare degli anni e forse dei secoli, avevano fatto a gara per innalzare. Da lassù la caverna, ancora illuminata dalla debole luce del giorno, appariva in tutta la sua grandezza: un antro enorme, che non c’era modo di riempire. Individuai una specie di sentiero, costituitosi nel tempo col passaggio di numerosi escursionisti, tutti più o meno esperti e tutti più o meno interessati al leggendario tesoro. Decisi di seguirlo, i fianchi del colle sembravano instabili e non volevo provocare una frana. La pendenza non era eccessiva; la “montagna”, in fondo, era solo un immenso cono con una base assai larga. Fu abbastanza facile arrivare su quello che poteva dirsi il pavimento dell’antro. Ora dovevo prendere una decisione perché i cunicoli erano numerosi. Quelli accessibili, si diramavano in cinque direzioni diverse, per un arco di cento gradi, proprio come le dita allargate di una mano. Ce n’erano anche degli altri, in cui però non si sarebbe potuto infilare neanche un bambino. Il terzo cunicolo, quello centrale, era il più impervio, quello meno battuto; pensai che valesse la pena iniziare da lì.
A metà strada mi voltai indietro per osservare se riuscivo ancora a vedere la lampadina sospesa che avevamo calato. Era lì. Un piccolo diamante che brillava nelle prime ombre del tramonto. Notai anche qualcos’altro che mi fece arrestare e riflettere. C’erano delle tracce su di un lato del colle. Era come se qualcuno lo avesse scalato, annaspando tra la polvere e i detriti. Solo una persona in preda allo spavento avrebbe tentato quella strada, altrimenti avrebbe aggirato il cono e sarebbe risalito tranquillamente per il sentiero. Una persona, che uscendo dal primo cunicolo, si fosse inerpicata per la via più breve, anche se pericolosa. Cambiai idea e mi diressi verso il primo cunicolo: avrei iniziato da lì.
Percorsi la galleria fino ad un punto in cui il pavimento, improvvisamente, assumeva una forte pendenza. Qui mi arrestai incuriosito dalla scoperta di un chiodo ad occhiello, infisso nella parete, cui era stata legata una corda. La corda non era nuova e non c’era modo di stabilire da quanto tempo fosse lì. Si srotolava giù per il cunicolo fino a scomparire alla vista. Mi voltai verso l’uscita, da quel punto era ancora visibile; ma se avessi percorso anche solo pochi metri, non sarei più riuscito a vederla a causa del percorso in discesa. Se Antonio avesse voluto lasciarsi dietro un “filo d’Arianna” quello era il punto giusto in cui ancorarlo. Ormai, non mi restava che proseguire: non potevo più ignorare quell’indizio. Accesi la torcia e cominciai a scendere, tenendomi a quella corda che si adagiava su di un percorso che ben conoscevo, finché non la vidi svoltare per infilarsi in un oscuro budello. Avvicinai la torcia e scoprii che dietro un diaframma di roccia spesso meno di un metro si apriva uno spazio più ampio. Il foro era stretto e pareva scavato con una piccozza o con un altro attrezzo simile. Osservando i detriti mi resi conto che non si trattava di roccia compatta. Il foro attraversava un antico muro, la cui facciata, nei secoli, era stata completamente ricoperta e mascherata da uno spesso strato di concrezioni. C’era una tomba ed era stata violata. Era stato Antonio a scavarla? Non per niente era considerato il miglior tombarolo di tutta la provincia. Riflettei sul fatto che se lui, così esperto, era rimasto intrappolato la dentro; quel posto doveva essere pericoloso ed entrarvi poteva presentare qualche rischio: meglio procedere con cautela.
- Antonio, Antonio sei li? – Gridai, alla volta del cunicolo. Ma non ebbi alcuna risposta.
Così, provai a tirare la corda, ma qualcosa la teneva bloccata. Era il corpo di Antonio? Nel pensarlo avvertii un brivido lungo la schiena. Raccolsi tutto il coraggio che avevo e con qualche difficoltà, m’infilai nello stretto pertugio. Scesi in un piccolo ambiente grande quanto una stanza. Individuai un’altra soglia e la raggiunsi per imboccarne l’uscio. Mi ritrovai a percorrere un’antica strada. Raschiando dal suolo alcuni centimetri di polvere, ne misi allo scoperto il lastricato, formato da lastroni di roccia tagliati in modo irregolare e sapientemente accostati gli uni agli altri. Ai lati della viuzza si scorgevano le strutture delle case, con le mura alte e ancora solide. Non c’era più traccia degli infissi ed i tetti dovevano essere crollati da tempo lasciando tracce evidenti sul selciato. Sotto la coltre di polvere infatti, erano ancora chiaramente riconoscibili qua e la, sagome di tegole. Il fascio di luce mostrava un paesaggio monocromatico, di un grigio spettrale: la polvere ricopriva tutto. No, non ero in una tomba; mi trovavo all’interno della mitica città sotterranea! Allora, Antonio non si era inventato nulla: era tutto vero!
- Antonio? – Chiamai. A bassa voce: temevo che la volta potesse crollarmi addosso.
- Antonio, Antonio? – Niente!
Avanzai piano. Avevo percorso poco più di una ventina di metri, quando scavalcai un lunga trave adagiata sulla strada di traverso. Mi parve molto lunga perché veniva fuori dalla porta di una di quelle case e s’infilava nell’ingresso della casa di fronte. Sbirciai rapidamente dentro quegli usci, mi parve di notare un luccichio sul pavimento, forse di maioliche; ma proseguii oltre. Tutto era ricoperto dalla solita polvere e non avevo né la voglia né il tempo di indagare: avanzai. Ora, il lungo fascio di luce della torcia illuminava la fine del tragitto: davanti a me la strada era sbarrata da un edificio crollato. Non avendo notato incroci o altre diramazioni, cominciai a pensare che non sarebbe stato tanto facile trovare Antonio; sempre ammesso che davvero fosse lì. Perplesso, per inerzia mentale continuai a camminare, arrestandomi solo davanti a un muro. Mi trovavo al centro di uno spazio privo di edifici i cui contorni, distanti, sfumavano alla luce della lampada: una piccola piazza non più grande di quella del mio paese. Notai un antico altare alla mia sinistra e alla base dell’altare un grande vaso. Tutto era come l’aveva descritto Antonio. Mi avvicinai a quell’ampolla e la osservai con attenzione: era molto bella e aveva anche un gran valore. Chissà quanti tesori nascondeva ancora quel posto: di certo, meritava una visita più accurata! Ero in preda all’eccitazione. Come un cleptomane in un bel negozio pieno di mercanzia, dovevo portar via qualcosa. Decisi di portar via quell’anfora, che non meritava di invecchiare nell’oscurità. Per fortuna avevo preso con me una corda: non era molto lunga, ma servì a imbracare l’anfora e a caricarmela sulle spalle a mo’ di zaino.
Quando ritornai sui miei passi fui preso da una strana inquietudine; come in preda un oscuro presagio, avvertivo di non essere solo. Mossi la torcia spostando il fascio di luce da entrambi i lati, lo proiettai verso l’alto: non notai niente di preoccupante. Forse, era solo suggestione, rammentavo il racconto fatto da Antonio; ma avevo preso l’anfora, e non era successo nulla.
Tuttavia, continuavo ad avvertire quel senso di… non saprei spiegarlo a parole, ma intuivo un pericolo. Ad un tratto, mentre avanzavo, udii chiaramente un respiro, lungo e profondo. Sembrava provenire dall’interno della casa accanto. Coi nervi tesi e la mano al revolver, restai immobile ad ascoltare. Cinque secondi, dieci, venti interminabili secondi poi, eccolo di nuovo. Terribile! Era un alito che non aveva nulla di umano: estrassi la pistola ed indietreggiai. Inciampai su quella trave che avevo notato arrivando e persi l’equilibrio. Caddi all’indietro e nel tentativo di salvare l’anfora cercai di cadere sulle natiche e di rimanere seduto: ci riuscii anche a prezzo di qualche difficoltà e di molto dolore; ma n’era valsa la pena. La torcia però, mi era sfuggita; era rotolata poco lontano. Il fascio di luce tangente, illuminava il pavimento della stanza di fronte che… buon Dio! Si muoveva. Con uno scatto ripresi la torcia. Fu allora che notai la trave. Aveva iniziato a scorrere in avanti, ondeggiando, come se fosse… il torso enorme di un serpente! Impossibile! No, non esistono serpenti così grandi! Illuminai la stanza. Vidi che il pavimento era totalmente ricoperto dalle spire arrotolate: formavano una gigantesca spirale. Quelle che avevo, in un primo tempo, ritenuto lucide maioliche, non erano altro che le squame del rettile. Poi girandomi, vidi la testa, enorme, si trovava nella stanza opposta: emetteva sibili spaventosi. Il serpente stava districando il suo lungo corpo per portarsi in posizione d’attacco. Per mia fortuna, era un rettile molto grande, addirittura enorme e proprio a causa delle sue dimensioni e dello spazio ridotto, faceva fatica ad alzarsi. Io, invece, fui in piedi in un attimo. Scappai a gambe levate verso l’uscita. Mentre fuggivo mi voltai e vidi che già mi rincorreva. Lo sentivo. Udivo, alle mie spalle, un rumore di fondo, simile a quello prodotto da una cinghia di trasmissione contro le sue pulegge. Era provocato delle scaglie che strusciavano sul terreno e lungo i muri. Nella foga dell’inseguimento, il gigantesco rettile si muoveva senza alcuna cautela, scaricando a terra, con vigore, tutto il suo peso. La terra stessa vibrava e anche gli edifici ne erano colpiti e scossi, tanta era l’irruenza di quel mostro. Guadagnava velocemente terreno, ero disperato, ma mi accorsi di essere vicinissimo all’uscita. Con un rapido scarto, svoltando ad angolo retto, imboccai al volo la porta, attraversai la stanza e mi fermai davanti allo stretto passaggio. Questa svolta repentina costò cara al serpente che, preso di sorpresa, non riuscì ad imitare la mia manovra e beccò in pieno lo stipite. Si attorcigliò in preda al dolore. Nello spasmo colpiva con forza l’edificio, sottoponendo la struttura, già provata dal tempo, a dei tremendi scossoni, tanto che temetti per un crollo. Mentre cadevano fitti dei calcinacci, infilai in fretta e furia l’anfora nello stretto passaggio e mi precipitai dentro anch’io. Mi muovevo con l’agilità della mangusta e in un attimo, senza quasi accorgermene, mi trovai fuori dal cunicolo.
Mente riprendevo l’anfora, lo vidi arrivare. Istintivamente retrocessi fino alla parete opposta e mi trovai con le spalle al muro. Infilò la testa nel varco: mi sentii perduto. La sua lunga lingua biforcuta mi sfiorò il viso: terrorizzato, arretrai fino ad appiattirmi contro la parete. Sentivo i suoi sibili e il suo alito su di me, ma non riusciva a raggiungermi: era incastrato!
La sua grossa testa non passava attraverso quel buco. Ne vedevo il muso appuntito cui da un’apposita fessura guizzava fuori la lingua. Ebbi così, il tempo di estrarre la mia arma e puntarla contro il rettile. Stavo per far fuoco, quando notai con preoccupazione che la parete iniziava a screpolarsi. Probabilmente, la bestia si era puntellata e spingeva con tutta la sua forza contro il muro. Sapevo che quelle grotte non erano stabili, a memoria d’uomo non lo erano mai state. Un colpo d’arma da fuoco, unito al putiferio che si stava scatenando mi avrebbero, di sicuro, seppellito sotto cumuli di macerie. Certo, non sarei scomparso come i leggendari esploratori del passato; questa volta, i soccorritori, scavando avrebbero ritrovato sia me sia il serpente; morti e sepolti naturalmente. Sussultai al fragore di un crollo, qualcosa era franato, al di la della parete. Il rettile si divincolò con più forza e l’intera grotta iniziò a tremare. Scappai di nuovo e guadagnai rapidamente l’uscita. Ripensandoci, mi sembra incredibile come, in preda al terrore, riuscissi a muovermi così velocemente, nonostante il peso e l’ingombro che portavo addosso. Già! L’anfora; ripensandoci, non meditai mai, nemmeno per un istante di liberarmene: ormai era mia. Ero giunto ai piedi del “colle”. Non avvertivo la stanchezza, ma ero madido di sudore. Affrontai subito il terreno cedevole e la salita, con grande energia.
Un altro boato: sperai la galleria avesse ceduto e gli fosse crollata addosso, seppellendolo o bloccandolo sotto una frana; ma mi sbagliavo. Ero già in cima quando il suo arrivo fu preannunciato da un nugolo di polvere e di piccoli detriti che fuoriuscivano dalla galleria. Mi vide subito: ero illuminato dalla lampadina che avevamo calato giù. Avanzò verso di me con decisione, mentre io invece, ero paralizzato. Ora, lo vedevo in tutta la sua possanza. Il suo corpo fuoriusciva, scivolando come sull’acqua, senza sforzo apparente. Stava per uscire dalla caverna, ma si fermò di colpo: ebbi l’impressione che fosse trattenuto per la coda. Vidi, con terrore, le sue grandi fauci, spalancarsi: mi avrebbe inghiottito in un sol boccone! Si alzava. La bocca completamente aperta esibiva due lunghi denti a sciabola, lunghi quanto un braccio!
Disperato, iniziai a gridare e mi arrampicai sulla corda. Il serpente cercò di avvicinarsi ma mi parve impacciato, oscillò in modo sgraziato, innaturale. Poi come se volesse liberarsi, si acquattò sul terreno e con foga, contorcendosi, tirò a se la lunga coda. Forse si liberò, ma la caverna non resse a quest’ultimo affronto. Ci fu come un terremoto e la volta crollò o almeno una parte di essa. Scorsi il masso che faceva da contrappeso precipitare nel vuoto, tirando su la corda a cui ero saldamente aggrappato e in una manciata di secondi mi ritrovai all’aperto. Dall’alto, guardando giù, vedevo solo un polverone. Penzolavo nel vuoto sospeso sul baratro: dovevo togliermi al più presto da quella situazione incresciosa. Per fortuna avevamo teso una corda ancorandola ad un grosso albero, ben radicato, non molto distante. Alla stregua di un ragno, mi aggrappai a quel cavo e lo percorsi a testa in giù, per trarmi d’impaccio.
Coi piedi finalmente a terra mi acquattai al suolo: i nervi tesi come corde di chitarra. L’avevo scampata bella! Ero terrorizzato. In preda alla paura di essere divorato. Mi voltai verso la bocca dell’Antro e tesi l’orecchio: un rumore di massi smottati mi fece trasalire. Poco a poco, recuperavo il mio sangue freddo: ora avrei potuto sparare senza pericolo ed ero deciso a farlo se quel rettile si fosse azzardato a metter fuori il muso! Ero in apprensione, ma non successe nulla di quel che temevo.
Cercai Carlo. Era buio e non fu facile scorgerlo, era scappato lontano ed aveva raggiunto l’Ape. Ora, che lo illuminavo con la torcia, continuava a fissarmi come se avesse visto un fantasma. A dire il vero, dovevo essere bianco in volto, come un lenzuolo!
Mi corse incontro a braccia aperte. Era felice di rivedermi ed anch’io lo ero: come uno che ritorna in vita, dopo essere stato all’inferno.
- Antonio? – Chiese lui, con apprensione.
- No, non l’ho trovato. – Risposi.
Lui fece un cenno con la testa, poi si avviò verso l’antro, ma lo richiamai.
- No! Non avvicinarti.
- Ma – disse lui – volevo recuperare le corde e tutto il resto.
Tesi l’orecchio cercando di avvertire ogni possibile rumore proveniente da lì sotto; ma il silenzio, adesso, era assoluto.
- Non ti avvicinare, non so se la volta regge ancora. Anzi recuperiamo qualche corda e realizziamo una sorta di recinzione. Chi capiterà da queste parti noterà anche che la bocca dell’antro si è allargata e se ne terrà lontano.
Rapidamente, al buio, recidemmo dei rami per fabbricare dei rudimentali paletti. Con quelli e con una corda ci apprestammo ad improvvisare un recinto.
Come di consueto, si lavorava in silenzio. Con l’aiuto delle torce recuperammo gran parte del materiale e lo caricammo sul nostro mezzo di trasporto. Dedicammo particolari attenzioni nel riporre l’anfora: nel timore che potesse rompersi. Carlo ci aggiunse di suo, una frase di ammirazione e partimmo. Sul parabrezza dell’Ape si spiaccicarono le prime gocce di pioggia.
I miei ricordi si interruppero: eravamo arrivati a casa di Carlo.
- Allora, a domani.
- A domani. – Risposi, mentre lui chiudeva la porta dell’Ape.
Nei giorni che seguirono la pioggia continuò incessante. I sentieri divennero impraticabili e le nostre ricerche rimasero in sospeso. Ebbi modo di vedere Carlo e di riferirgli della misteriosa città sepolta. Non gli raccontai del serpente e non lo feci più, neanche in seguito. Appena potemmo, ci recammo sull’orlo dell’Antro del Purgatorio, ma rilevammo che l’intera grotta era stata invasa dall’acqua ed è così che si presenta ancor oggi. Si disse che il crollo, che aveva interessato anche la volta, probabilmente aveva ostruito antiche vie di deflusso. Purtroppo, dovemmo rassegnarci: il tesoro era perso per sempre.
… Nella prima guerra punica il console Attilio Regolo, avendo posto gli accampamenti militari presso il fiume Bagrada, condusse un’acre e grande battaglia contro un serpente di inusitata grandezza che stazionava in quei luoghi, e tutto l’esercito con un grande combattimento alla fine lo uccise facendo ricorso alle catapulte ed alle baliste; (il console) spedì a Roma la pelle dell’animale che misurava centoventi piedi (35,57 metri).
Da un frammento del IX libro delle Historiae di Quinto Elio Tuberose.
Per quanto ne so, i serpenti, di solito sono creature minute, con qualche eccezione che conferma la regola. So che tra i rettili, alcuni possono crescere in modo smisurato, ma si tratta, per lo più, di tartarughe o di coccodrilli, specie in cui, certi esemplari, raggiungono davvero proporzioni gigantesche. Sentito il racconto, fui preso da un moto d’incredulità. Provai quello che si prova di fronte alla storia di un pescatore, tutto teso ad ingigantire la mole della sua preda; ma Gennaro non era un pescatore. Aveva scavato e aveva vissuto sotto terra le sue avventure. Una volta mi raccontò di aver trovato le tombe dei giganti. Ebbi conferma che, sul luogo che mi aveva indicato, altri avevano fatto gli stessi ritrovamenti. Ne informai anche un archeologo, ma non se né fece nulla: evidentemente, non mi credette.
Gennaro non aveva molta stima per gli archeologi. “Non sanno niente – mi ripeteva – se avessero visto le cose che abbiamo ritrovato, dovrebbero riscrivere i libri di storia! Pensa, cercano ancora, in Africa, le ossa dei giganti e non sanno di averle qui, sotto i piedi.”
Sulla strana vicenda, non fu possibile interrogare Antonio, il quale evitò sempre qualsiasi discorso che riguardasse l’Antro del Purgatorio. Evidentemente, reduce da un’esperienza del tutto negativa da cui non si riprese, cominciò a bere ed a condurre una vita molto sregolata. Morì a poco più di cinquant’anni stroncato da un infarto.
Gli anni sono passati, anche Gennaro è scomparso: ha compiuto il suo percorso. Di lui rimarrà una storia che, per quanto incredibile, sarà raccontata. In quanto all’anfora, è ancora qui. Unica muta testimone di quella vicenda. Gennaro la prese perché, non meritava di invecchiare nell’oscurità.