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domenica 28 aprile 2019

FARMACI INTROVABILI


Succede: vai in farmacia, chiedi il medicinale e al massimo, aspetti fino al pomeriggio o al giorno dopo; il tempo per il farmacista di fare la richiesta e di attendere la consegna del distributore. Questo è ciò che accade normalmente e che dovrebbe accadere. Ma ci sono medicinali che in farmacia, invece, non si trovano: né in quella vicino a casa, né in quella dall’altra parte della città  e neanche nell’intero circondario. E non si tratta di farmaci per i comuni malanni di stagione, ma di medicinali per problemi anche pesanti, come il Parkinson.
È ciclicamente successo che alcuni farmaci, che servono per i sintomi di questo disturbo cronico e degenerativo del sistema nervoso centrale, diventassero introvabili, in alcuni casi, per mesi (magari solo in alcune regioni) scatenando il panico tra i malati, abituati alla loro terapia e alle prese con sintomi anche molto gravi.
I malati di Parkinson devono prendere le medicine! Devono farlo, addirittura più volte al giorno. Se non lo fanno magari non riescono neanche a parlare o a stare in piedi. Non riescono a deglutire o ad aprire gli occhi: è tremendo. E quando poi riassumono il farmaco vanno incontro a dolori articolari fortissimi. Sono, quindi, medicinali che non possono essere sospesi improvvisamente: se non si trova il medicinale, quello a cui sono abituati, diventa un problema non solo per loro, ma anche per i loro familiari. Servono soluzioni.
Occorre un accesso efficiente alle informazioni, questo chiedono i pazienti: in alcuni casi di indisponibilità non si riesce neanche a capire dove vanno a finire questi farmaci. Non c’è un controllo di filiera completo e può persino succedere che i distributori abbiano il medicinale, ma non lo carichino nel sistema da cui possono vederlo le farmacie. E può capitare che, con una semplice telefonata al distributore, i farmacisti trovino i farmaci che a video non risultavano disponibili.
Sempre meglio chiedere di fare anche una telefonata.
C’è, poi, il processo di segnalazione delle indisponibilità, che è migliorabile: per i farmacisti avviare la procedura può risultare oneroso in termini di tempo.
 

Ma perché un certo farmaco non si trova?
Perché i farmaci scompaiono?
Il problema della scomparsa dei farmaci, che riguarda medicinali per diverse malattie, è molto articolato e c’è da distinguere tra due fenomeni principali.
Il primo è quello delle carenze ufficiali, legate, ad esempio, all’interruzione della produzione da parte della casa farmaceutica (per esempio per difficoltà a reperire il principio attivo). Questa interruzione va comunicata almeno due mesi prima all’Aifa, che inserisce il farmaco in una lista sul suo sito e nei casi più gravi, come quando non esistono medicinali alternativi, mette in moto iniziative, come l’autorizzazione all’importazione dall’estero.
Il secondo fenomeno alla base della scomparsa dei farmaci, invece, non è lecito ed è legato a distorsioni della rete distributiva nell'esportazione parallela dei medicinali (parallel trade). L’esportazione è legale di per sé ma, in teoria, grossisti e farmacisti con licenza da grossisti dovrebbero soddisfare il fabbisogno sul territorio e solo dopo esportare. Non solo: i farmacisti-grossisti, dovrebbero tenere separate le due attività e non potrebbero, come spesso denunciato, vendere all'estero (come grossisti) i farmaci che dovrebbero distribuire ai pazienti (come farmacisti), allo scopo di guadagnarci di più. Infatti, in Paesi come Francia e Germania, i farmaci costano di più. Gli interessi coinvolti potrebbero essere di tutti gli attori della filiera. L’Aifa li ha chiamati tutti a un tavolo tecnico anti indisponibilità nel 2016.
 

Stop alle esportazioni a rischio?
Dopo il 2016, il fenomeno è rientrato almeno per un paio di anni. Adesso si stanno notando nuove criticità, anche sul fronte delle carenze produttive, per cui si sta cercando di migliorare la segnalazione di queste carenze soprattutto per ridurne i tempi. Quanto alle indisponibilità dovute alla rete distributiva, c'è più consapevolezza tra gli operatori e la grossa novità su cui si sta ragionando, dopo il pronunciamento della Commissione Ue, è la possibilità di bloccare o quantomeno limitare le esportazioni di farmaci che sono stati
oggetto di fenomeni di accaparramento nel parallel trade.
Con la rete distributiva, Aifa sta lavorando anche su altri fronti: un sistema di reportistica per classificare in modo puntuale le segnalazioni (nel quadro normativo mancano persino le definizioni su cos'è una carenza) formazione degli operatori: affinché ci sia conoscenza del fenomeno e degli strumenti già a disposizione.  Nel 2025, poi, sarà pienamente operativo il regolamento Ue che renderà tracciabile ogni singola confezione: chi "rastrella" farmaci sarà inevitabilmente visibile ed è inevitabile che alcune distorsioni si correggeranno da sole.

lunedì 22 aprile 2019

LISTE D'ATTESA




Secondo l’Istat, circa quattro milioni di italiani non riescono a curarsi. Le liste d’attesa troppo lunghe e l’impossibilità, per motivi economici, di accedere a strutture private rendono di fatto inapplicabile, per una fetta consistente di popolazione, il diritto alla salute sancito dalla Costituzione. Di fatto, quasi la metà dei cittadini ha difficoltà a sostenere spese legate alla salute. In altre parole, di fronte a tempi d’attesa lunghissimi, in molti rinunciano a farsi visitare perché non hanno i soldi per rivolgersi al privato. In questo scenario, esce il nuovo piano nazionale delle liste d’attesa lanciato dal ministero della Salute a nove anni di distanza dalla precedente edizione. Il piano ha il pregio di affrontare il tema delle liste d’attesa in tutti i suoi aspetti e di mettere ordine alle diverse attività che possono e devono essere intraprese per una gestione più efficace e trasparente, puntando su un monitoraggio attento e su una chiara definizione dei criteri di priorità in base ai quali fissare gli appuntamenti, sia per le visite sia per i ricoveri. Certamente non risolve tutto, basti pensare alla carenza di personale che lamentano gli operatori sanitari, medici e infermieri. A mio parere, il servizio pubblico deve continuare a giocare un ruolo centrale, mentre le altre soluzioni possibili, che subentrano per soddisfare in tempi ragionevoli tutte le richieste, possono essere solo complementari. Pensiamo alle polizze assicurative che rimborsano le spese mediche (solo a chi appartiene a determinate categorie professionali) o alle prestazioni di medici privati che operano in intramoenia (“dentro le mura”) nelle strutture pubbliche, a pagamento e riducendo in questo modo i tempi di attesa. Sappiamo che, in molti casi si può, con questa soluzione, avere l’appuntamento in tempi analoghi a quelli del vero e proprio privato e con costi soggetti a minori oscillazioni. Ma non tutti possono permetterselo, ed è soprattutto ai cittadini più in difficoltà che il servizio sanitario deve garantire accesso alle cure.

sabato 20 aprile 2019

IL DISCEPOLO PREDILETTO




Come abbiamo già visto in un post precedente (Cfr. La moglie di Gesù) se la Maddalena e Maria di Betania sono la stessa donna e se questa donna era la moglie di Gesù, di conseguenza, Lazzaro sarebbe stato il cognato di Gesù.
Ma nei Vangeli c'è davvero qualcosa che indica che Lazzaro avesse veramente questa posizione speciale?
Lazzaro non figura nei Vangeli di Luca, Matteo e Marco, anche se la sua resurrezione dai morti era contenuta, in origine, nel testo marciano e fu espunta in seguito. Perciò Lazzaro è conosciuto dai posteri solo tramite il Quarto Vangelo, il Vangelo di Giovanni. Ma qui è chiaro che gode di un trattamento preferenziale, non circoscritto alla sua resurrezione. Sotto questo e molti altri aspetti, Lazzaro sembra, se mai, più vicino a Gesù degli stessi discepoli. Eppure, piuttosto stranamente, i Vangeli non lo enumerano tra di loro. A differenza di costoro, Lazzaro viene minacciato di morte. Secondo il Quarto Vangelo, quando i sommi sacerdoti decidono di eliminare Gesù, decidono di uccidere anche Lazzaro (Giovanni 12:10).
Quindi Lazzaro, a quanto pare, avrebbe operato in qualche modo nell'interesse di Gesù, mentre non si può dire altrettanto di certi discepoli. Non sarebbe presente neppure alla Crocifissione: una dimostrazione d'ingratitudine apparentemente vergognosa, da parte di un uomo che doveva la vita a Gesù nel senso più completo della parola. Certo, è possibile che si fosse nascosto, dato il pericolo che lo minacciava. Ma è molto strano che nei Vangeli non si accenni più a lui. Sembra sparito e non viene più nominato.
Ma è davvero così?
Cerchiamo di esaminare più attentamente il problema.
Dopo aver soggiornato a Betania per tre mesi, Gesù si ritira con i discepoli sulle rive del Giordano, a non più di un giorno di cammino da quella località. Un messaggero lo raggiunge portando la notizia che Lazzaro è malato. Ma il messaggèro non allude a Lazzaro chiamandolo per nome. Al contrario, parla del malato come di un uomo che ha una speciale importanza: "Signore, ecco, colui che tu ami è malato." (Giovanni 11:3).
La reazione di Gesù alla notizia è decisamente strana. Anziché affrettarsi a tornare per soccorrere l'uomo che gli è caro, accantona con disinvoltura il problema: "All'udire questo, Gesù disse: - Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio verrà glorificato." (11:4).
E se le sue parole sono sconcertanti, le sue azioni lo sono ancora di più: "Quand'ebbe dunque sentito che era malato, si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava." (11:6)
Insomma, Gesù continua a indugiare sulle rive del Giordano, nonostante la notizia allarmante che ha ricevuto. Alla fine, decide di ritornare a Betania. Poi contraddice in modo clamoroso la sua affermazione precedente, dicendo ai discepoli che Lazzaro è morto. Tuttavia, rimane imperturbato. Anzi, afferma con chiarezza che la "morte" di Lazzaro è servita a qualche scopo: "II nostro amico Lazzaro s'è addormentato, ma io vado a svegliarlo." (11:11).
E quattro versetti più avanti ammette che l'intero episodio è stato meticolosamente preparato e disposto in anticipo: "E io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui." (11:15).
Se questo comportamento è sconcertante, la reazione dei discepoli non lo è meno: "Allora Tommaso, chiamato Didimo, disse ai condiscepoli: - Andiamo anche noi a morire con lui!" (11:16).
Che significa?
Se Lazzaro è letteralmente morto, senza dubbio i discepoli non intendono seguirlo con un suicidio collettivo! E come si può spiegare la noncuranza di Gesù, l'indifferenza con cui riceve l'annuncio della malattia di Lazzaro e il suo ritardo nel ritornare a Betania?



La spiegazione sembra consistere, come suggerisce il professor Morton Smith, in una iniziazione più o meno tipica di una "scuola misterica". Questi riti d'iniziazione, a quei tempi, pare fossero abbastanza comuni in Palestina. Spesso comportavano una morte e una rinascita simbolica e la reclusione in una tomba, che diveniva il grembo della rinascita dell'accolito. Un rito antico che era presente ovunque. Ovunque c'era un Dio che, a primavera, presiedeva al risveglio della natura, un Dio che faceva maturare le messi, un Dio del pane, un Dio del vino. E il vino, era identificato con il sangue del maestro che presiedeva alla cerimonia. Bevendo il vino da una coppa, il discepolo consumava un'unione simbolica con il maestro: diventava misticamente una cosa sola con lui. E Gesù fa la stessa cosa durante l'Ultima Cena.
Sembrerebbe quindi che Lazzaro, mentre Gesù soggiorna lungo il Giordano, abbia intrapreso un tipico rito di iniziazione che, come di consueto, porta a una simbolica resurrezione. In questa luce, il desiderio di "morire con lui" espresso dai discepoli diviene perfettamente comprensibile, come diviene comprensibile il comportamento di Gesù. Certo, Maria e Marta sembrano sinceramente afflitte e come loro molte altre persone. Ma è possibile che qualcosa non fosse andato per i verso giusto, come accadeva non di rado. Se l'episodio di Lazzaro si riferisce a un'iniziazione rituale, è evidente che Lazzaro riceve un trattamento preferenziale. Tra l'altro, viene apparentemente iniziato prima di tutti gli altri discepoli che anzi sembrano invidiosi del suo privilegio. Ma perché l'uomo di Betania, fino a quel momento sconosciuto, dovrebbe ricevere un simile onore?
Perché subisce un'esperienza che i discepoli sono tanto ansiosi di condividere?
E perché l'intero episodio fu espunto dal Vangelo di Marco?
Forse perché Lazzaro era "colui che Gesù amava" più degli altri discepoli. Forse perché Lazzaro aveva un legame speciale con Gesù: era suo cognato? Forse, per entrambe le ragioni.
È possibile che Gesù conoscesse e amasse Lazzaro appunto perché era suo cognato. Comunque, questo affetto viene sottolineato più volte. Quando Gesù ritorna a Betania e piange (o finge di piangere) per la morte di Lazzaro, gli astanti riecheggiano le parole del messaggero: " Vedi come lo amava!" (Giovanni 11:36).





L'AUTORE DEL VANGELO DI GIOVANNI 



Nel Vangelo che narra l'episodio di Lazzaro, l'autore, non si identifica mai come "Giovanni". Anzi, non dice mai il proprio nome. Tuttavia, allude a se stesso con un appellativo che lo distingue. Chiama costantemente se stesso "il discepolo prediletto", "colui che Gesù amava" e fa capire in modo chiaro che gode di una posizione eccezionale, privilegiata rispetto ai suoi compagni. All'Ultima Cena, ad esempio, mostra apertamente la sua personale vicinanza a Gesù e a lui solo Gesù confida come avverrà il tradimento: "Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola a fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: "Dì chi è colui a cui si riferisce? Ed egli reclinandosi sul petto di Gesù gli disse: "Signore, chi è? Rispose allora Gesù: "È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò". E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone." (Giovanni 13: 23-6).
Chi è il discepolo prediletto, sulla cui testimonianza si basa il Quarto Vangelo? Tutto indica che sia in effetti Lazzaro, colui che Gesù amava. Sembrerebbe, quindi, che Lazzaro e il discepolo prediletto siano la stessa persona e che Lazzaro sia la vera identità di Giovanni. Questa conclusione appare quasi inevitabile.
Secondo William Brownlee, illustre filologo biblico, uno dei maggiori esperti per quanto riguarda i Rotoli del Mar Morto, in base all'evidenza contenuta nel Quarto Vangelo, si arriva alla conclusione che il discepolo prediletto è Lazzaro di Betania. Se Lazzaro e il discepolo prediletto sono la stessa persona, questo spiegherebbe parecchie anomalie. Spiegherebbe la misteriosa sparizione di Lazzaro dal racconto delle Scritture e la sua apparente assenza durante la Crocifissione. Infatti, se Lazzaro e il discepolo prediletto erano la stessa persona, alla Crocifissione Lazzaro era presente. A Lazzaro Gesù avrebbe affidato la madre e l’avrebbe fatto con queste parole: “Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: - Donna, ecco il tuo figlio! - Poi disse al discepolo - Ecco la tua madre!. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa (Giovanni 19: 26-7).
L'ultima parola del brano citato è particolarmente rivelatrice. Infatti gli altri discepoli hanno abbandonato le loro case in Galilea e in pratica, non hanno casa. Lazzaro, invece, ce l'ha: la casa di Betania, dove lo stesso Gesù soggiornava.
Dopo che i sacerdoti decidono di farlo uccidere, Lazzaro non viene più menzionato per nome. Sembra sparire completamente. Ma se è veramente il discepolo prediletto, dopotutto non sparisce affatto e i suoi movimenti e la sua attività si possono seguire fino alla conclusione del Quarto Vangelo. E anche qui c'è un episodio curioso che merita un attento esame. Al termine del Quarto Vangelo, Gesù predice la morte di Pietro e gli ordina di seguirlo. Pietro allora, voltandosi, vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: "Signore, chi è che ti tradisce?" Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù: "Signore, e lui? Gesù gli rispose: "Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi". Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: "Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te?" Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. (Giovanni 21: 20-24).
Nonostante la fraseologia ambigua, il significato del passo sembrerebbe chiaro: il discepolo prediletto ha ricevuto l'ordine esplicito di attendere il ritorno di Gesù. E il testo sembra però sottolineare che questo ritorno non deve essere inteso simbolicamente, nel senso di un secondo avvento. Al contrario, implica qualcosa di più terreno. Implica che Gesù, dopo aver mandato per il mondo gli altri suoi seguaci, deve ritornare presto per conferire un compito speciale al discepolo prediletto. Si direbbe quasi che abbiano accordi precisi e concreti da concludere, piani da approntare.
 




Se il discepolo prediletto è Lazzaro, questa collusione di cui gli altri discepoli non sanno nulla sembra avere un precedente. Durante la settimana che precede la Crocifissione, Gesù si accinge a compiere il suo trionfale ingresso in Gerusalemme e per farlo in armonia con le profezie dell'Antico Testamento che parlano di un Messia, deve entrare nella città in groppa a un asino (Zaccaria 9:9-10). Perciò è necessario procurarsi un asino. Nel Vangelo di Luca, Gesù manda due discepoli a Betania dove, dice loro, troveranno un asino. Hanno l'ordine di dire al padrone dell'asino che il Maestro ne ha bisogno. Quando tutto si svolge esattamente come Gesù ha preannunciato, la cosa viene considerata come una specie di miracolo.
Ma c'è davvero qualcosa di straordinario?
Non indica semplicemente l'esistenza di piani meticolosamente preparati?
E l'uomo di Betania che fornisce l'asino al momento giusto non sembra Lazzaro?
 Questa è certamente la conclusione del professor Hugh Schonfield. Egli sostiene in modo convincente che l'organizzazione dell'ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme fu affidata a Lazzaro e che gli altri discepoli non ne sapevano nulla. In ogni caso, la collusione che sembra portare alla consegna di un asino da parte deIl'uomo di Betania può riapparire nel misterioso finale del Quarto Vangelo: quando Gesù ordina al suo discepolo prediletto di rimanere fino al suo ritorno. Si direbbe che lui e il discepolo prediletto abbiano piani da preparare. E non è irragionevole presumere che tali piani riguardassero la famiglia di Gesù. Sulla croce, Gesù aveva già affidato la madre al discepolo prediletto. Se aveva moglie e figli, presumibilmente anche loro sarebbero stati affidati allo stesso discepolo.

giovedì 18 aprile 2019

LA CROCIFFISSIONE




Durante l'incontro con Pilato, Gesù viene chiamato più volte "Re dei Giudei". Per ordine dello stesso Pilato, sulla croce viene affissa un'iscrizione con questo titolo. Come sostiene S.G.F. Brandon dell'Università di Manchester, l'iscrizione affissa alla croce deve essere considerata autentica, innanzitutto perchè figura, virtualmente senza variazioni, in tutti i quattro Vangeli. In secondo luogo è un episodio troppo compromettente e imbarazzante perché l'abbiano inventato i revisori più tardi.
Nel Vangelo di Marco, Pilato, dopo aver interrogato Gesù, chiede ai dignitari: "Che farò dunque di quello che voi chiamate Re dei Giudei?" (Marco 15:12).
Questo parrebbe indicare che almeno alcuni Giudei consideravano veramente Gesù come il loro re. Nel contempo, però, in tutti i quattro Vangeli anche Pilato accorda questo titolo a Gesù. Non c'è ragione di supporre che lo faccia per ironizzare o per deriderlo. Nel Quarto Vangelo insiste a farlo, in tono serio, nonostante il coro di proteste. Nei tre Vangeli Sinottici, inoltre, lo stesso Gesù ammette di rivendicare il titolo: "Allora Pilato prese a interrogarlo: - Sei tu il Re dei Giudei? - Ed egli rispose: -Tu lo dici" (Marco 15:2).
Se, nella traduzione, la risposta può suonare ambivalente, nel testo originale, in greco, però, il suo significato è inequivocabile. Può essere interpretata solo come "Tu hai parlato giustamente".
I Vangeli furono composti dopo l'insurrezione del 68-74 d.C, quando il giudaismo aveva finito di esistere come una forza sociale, politica e organizzazione militare. E soprattutto, i Vangeli furono composti per un pubblico grecoromano e dovevano risultare accettabili. Roma aveva appena finito di combattere contro gli Ebrei una guerra feroce e dispendiosa. Quindi era del tutto naturale presentare i Giudei come malvagi. Inoltre, la parte avuta dai Romani nel processo e nell'esecuzione di Gesù doveva essere riveduta, corretta e presentata nel miglior modo possibile. Perciò nei Vangeli Pilato figura come un uomo onesto, serio e tollerante, che consente con grande riluttanza alla Crocifissione. Tuttavia, nonostante questa libertà che gli evangelisti si presero con la storia, si può ricostruire quale fu la vera posizione di Roma nella vicenda.






Secondo i Vangeli, Gesù venne inizialmente condannato dal Sinedrio, il consiglio degli anziani giudei, i quali lo portarono davanti a Pilato e chiesero al governatore di pronunciarsi contro di lui.
Da un punto di vista storico, questo non ha senso.
Nei tre Vangeli Sinottici, Gesù viene arrestato e condannato dal Sinedrio la notte di Pasqua; ma secondo la legge giudaica, il sinedrio non poteva riunirsi per Pasqua. Nei Vangeli l'arresto di Gesù e il suo processo davanti al sinedrio hanno luogo di notte; secondo la legge giudaica, il sinedrio non poteva riunirsi di notte, in case private o in qualunque luogo che non fosse all'interno del recinto del Tempio. Nei Vangeli, il sinedrio sembra non avere l'autorità di pronunciare una condanna a morte e sarebbe per questa ragione che Gesù viene condotto davanti a Pilato; ma il Sinedrio aveva l'autorità di emettere condanne a morte: per lapidazione, se non per crocifissione. Perciò, se il sinedrio avesse voluto eliminare Gesù, avrebbe avuto l'autorità di condannarlo alla lapidazione: l'intervento di Pilato non sarebbe stato necessario.
Gli autori dei Vangeli attuarono altri numerosi tentativi per scagionare Roma da ogni responsabilità. Uno è rappresentato dall'offerta di grazia fatta da Pilato, il quale si dichiara disposto a liberare un prigioniero a scelta della folla. Secondo i Vangeli di Marco e Matteo, questa era un'usanza della festa di Pasqua.
In realtà, tale consuetudine non esisteva.
Gli autori moderni concordano che i Romani non adottarono mai tale politica e che l'offerta di liberare Gesù o Barabba è un'invenzione. Anche la riluttanza di Pilato di fronte alla prospettiva di condannare Gesù e la sua irritata rassegnazione alla pressione della folla sembrano altrettanto fittizie. In realtà, sarebbe stato impensabile che un governatore romano, per giunta implacabile come Pilato, si piegasse al volere della folla. Lo scopo di queste alterazioni è piuttosto chiaro: scagionare i Romani, attribuire tutta la colpa agli Ebrei e rendere così Gesù accettabile a un pubblico romano.
È possibile, naturalmente, che non tutti i Giudei fossero innocenti: senza dubbio, a Roma avrebbe fatto comodo che Gesù venisse tradito ufficialmente dal suo popolo. È quindi concepibile che i Romani si servissero di agenti provocatori. Ma anche così, rimane il fatto incontrovertibile che Gesù fu vittima di un'amministrazione romana, di un tribunale romano, di una condanna romana, dei militari romani e di un'esecuzione romana: un'esecuzione la cui forma era riservata esclusivamente ai nemici di Roma. Gesù non fu crocifisso per le sue colpe nei confronti del giudaismo, ma per le colpe nei confronti dell'impero.






Barabba

 Chi era lo sfuggente personaggio che nei Vangeli figura come Barabba o, per essere più precisi, come Gesù Barabba? In una prima versione del Vangelo di Matteo viene identificato infatti con questo nome.
I filologi moderni sono incerti circa la derivazione e il significato di "Barabba". "Gesù Barabba" può essere una forma corrotta di "Gesù Berabbi". Berabbi era un titolo riservato ai rabbi più stimati e seguiva il loro nome proprio. Quindi Gesù Berabbi potrebbe perciò riferirsi allo stesso Gesù. E c'è anche un'altra possibilità. Gesù Barabba potrebbe derivare da "Gesù bar Abba" e poiché in ebraico "Abba" significa padre, Barabba significherebbe allora "figlio del padre": una designazione priva di senso, a meno che il padre non fosse veramente il "Padre Celeste". Allora Barabba potrebbe ancora una volta riferirsi allo stesso Gesù.
Quale che sia il significato e la derivazione del nome, il personaggio Barabba è estremamente curioso. E più si considera l'episodio che lo riguarda e più diviene evidente che sta succedendo qualcosa di irregolare e che qualcuno sta cercando di nascondere la verità. Innanzitutto il nome di Barabba, come quello della Maddalena, sembra aver subito una sistematica campagna diffamatoria. Come la tradizione popolare fa della Maddalena una prostituta, così dipinge Barabba come un ladrone.
A stretto rigore, i Vangeli non descrivono Barabba come un ladro. Secondo Marco e Luca, è un prigioniero politico, un ribelle accusato d'omicidio e di insurrezione. Nel Vangelo di Matteo, tuttavia, Barabba è descritto come un prigioniero famoso. Nel Quarto Vangelo, Barabba è chiamato (nell'originale greco) un lestes (Giovanni 18:40).
Sì, la parola può essere tradotta come ladro o bandito, ma nel suo contesto storico significava qualcosa di ben diverso: lestes era infatti il termine abitualmente usato dai Romani per indicare gli zeloti, i rivoluzionari nazionalisti che da tempo fomentavano disordini.
Poiché Marco e Luca dicono concordemente che Barabba è colpevole d'insurrezione e poiché Matteo non contraddice questa affermazione, si può concludere con sicurezza che Barabba era uno zelota.
Ma queste non sono le sole notizie esistenti su Barabba. Secondo Luca, era stato coinvolto recentemente in disordini o in una sedizione avvenuta in città. La storia non parla di disordini accaduti a Gerusalemme in quel tempo, ma i Vangeli sì. Secondo i Vangeli, a Gerusalemme c'erano stati disordini solo pochi giorni prima: quando Gesù e i suoi seguaci avevano rovesciato i tavoli degli usurai nel Tempio.
Barabba aveva partecipato all'episodio e per questo era stato imprigionato?
Sembra probabile. Se così fosse, la conclusione ovvia è una sola: Barabba faceva parte del seguito di Gesù.
Secondo gli studiosi moderni, l'usanza di liberare un prigioniero in occasione della Pasqua non esisteva. Ma, anche se fosse esistita, la preferenza accordata a Barabba rispetto a Gesù non avrebbe senso.
Se Barabba era davvero un delinquente comune, colpevole di omicidio, perché il popolo decise di salvargli la vita?
E se, invece, era uno zelota, un rivoluzionario, è poco verosimile che Pilato rilasciasse un personaggio potenzialmente tanto pericoloso, anziché un innocuo visionario che, almeno come affermano i vangeli, era dispostissimo a "dare a Cesare ciò che è di Cesare". Tra tutte le discrepanze, le improbabilità e le incongruenze contenute nei Vangeli, la scelta di Barabba è la più sorprendente e inspiegabile.






Se si considera il ritratto che I Vangeli danno di Gesù, è inspiegabile che venisse crocifisso. Secondo i Vangeli, i suoi nemici erano in certi ambienti giudaici di Gerusalemme. Ma questi nemici, se esistevano veramente, avrebbero potuto lapidarlo di loro iniziativa e in nome della loro autorità, senza coinvolgere Roma nella questione.
Secondo i Vangeli, Gesù non aveva nessun motivo di dissidio con Roma e non violava la legge romana. Tuttavia venne punito dai Romani, secondo la legge e le procedure romane. Fu crocifisso: una pena riservata esclusivamente a coloro che erano colpevoli di delitti contro l'impero. Se Gesù fu davvero crocifisso, non poteva essere apolitico come lo rappresentano i Vangeli. Al contrario, doveva necessariamente aver fatto qualcosa per attirarsi la collera dei Romani. Quali che fossero le imputazioni per le quali fu crocifisso Gesù, la sua apparente morte sulla croce è piena d'incongruenze.
Presso i Romani, vigeva una procedura molto precisa per la Crocifissione. Dopo la sentenza, il condannato veniva flagellato e di conseguenza, la perdita di sangue l'indeboliva. Poi le sue braccia venivano fissate, di solito per mezzo di cinghie, ma qualche volta con i chiodi, a una pesante trave lignea caricata sulle spalle. Portando la trave, veniva condotto sul luogo dell'esecuzione. Lì la trave, con il condannato appeso, veniva sollevata e fissata a un palo verticale. Il condannato, appeso per le mani, non avrebbe potuto respirare, a meno che anche i piedi fossero fissati alla croce. Questo gli avrebbe permesso di esercitare una pressione sui piedi, alleviando quella sul torace. Ma nonostante la sofferenza, un uomo così appeso con i piedi fissati, soprattutto se era sano e robusto, di solito sopravviveva almeno per un giorno o due. Qualche volta, anzi, ci metteva una settimana a morire: di sfinimento, di sete o se venivano usati i chiodi, di setticemia. A questa sofferenza prolungata si poteva mettere fine più rapidamente spezzando le gambe o le ginocchia del condannato ed è quanto stavano per fare, i carnefici di Gesù, prima di essere trattenuti. Spezzare le gambe o le ginocchia non era un atto di sadismo. Al contrario: era un atto di misericordia, un colpo di grazia che causava una morte molto rapida. Quando non c'era più nulla che lo sostenesse, la pressione sul torace del condannato diventava intollerabile ed egli moriva rapidamente per asfissia.
Gli studiosi moderni concordano nel ritenere che solo il Quarto Vangelo sia basato su un racconto della Crocifissione fatto da un testimone oculare. Secondo il Quarto Vangelo, i piedi di Gesù furono fissati alla croce, alleviando così la pressione sui muscoli pettorali e le sue gambe non furono spezzate. Quindi, almeno in teoria, avrebbe dovuto sopravvivere per due o tre giorni. Tuttavia, Gesù era sulla croce da poche ore soltanto quando venne dichiarato morto. Nel Vangelo di Marco, lo stesso Pilato si stupisce della rapidità con cui sopravviene la morte (Marco 15:44).
Quale può essere stata la causa della morte?
Non il colpo di lancia nel costato, poiché il Quarto Vangelo afferma che Gesù era già morto quando gli fu inferta la ferita (Giovanni 19:33).
C'è una sola spiegazione: l'assommarsi dello sfinimento, della stanchezza, della debilitazione generale e del trauma della flagellazione. Ma neppure questi fattori avrebbero potuto essere fatali tanto in fretta. Naturalmente, è possibile che lo fossero: nonostante le leggi fisiologiche, qualche volta un uomo muore per un solo colpo, relativamente innocuo. Tuttavia, l'intera vicenda continua ad apparire sospetta. Secondo il Quarto Vangelo, i carnefici di Gesù si accinsero a spezzargli le gambe per affrettarne la morte.
Perché farlo, se era già moribondo? Insomma, non avrebbe avuto senso spezzare le gambe di Gesù, a meno che la sua morte non fosse apparsa tutt'altro che imminente.
Nei Vangeli, la morte di Gesù sopravviene in un momento quasi troppo opportuno. Avviene giusto in tempo per evitare che i carnefici gli spezzino le gambe.
Insomma, l'apparente e opportuna "morte" di Gesù lo salva appena in tempo da una fine certa. È tutto perfetto, troppo preciso per essere una coincidenza. Può trattarsi di un'interpolazione successiva, a posteriori oppure doveva far parte di un piano meticolosamente preparato. Vi sono molti altri indizi che fanno pensare a quest'ultima possibilità.
Nel Quarto Vangelo Gesù, appeso alla croce, dice di aver sete. Gli viene allora offerta una spugna che, è detto, era stata intrisa d'aceto. Questo episodio compare anche negli altri Vangeli. L'aceto o il vino inacidito è uno stimolante e ha effetti non dissimili da quelli dei sali da fiuto. A quel tempo veniva usato per rianimare gli schiavi infiacchiti a bordo delle galere. In un uomo ferito ed esausto, l'aceto, fiutato o bevuto causa una temporanea ripresa dell'energia. Invece, nel caso di Gesù, l'effetto è esattamente il contrario. Appena aspira o assorbe il contenuto della spugna, pronuncia le sue ultime parole e "rende lo spirito. Una simile reazione causata dall'aceto è fisiologicamente inspiegabile. D'altra parte, sarebbe perfettamente comprensibile se la spugna fosse stata imbevuta di un soporifero, ad esempio un composto di oppio o di belladonna, sostanze usate comunemente a quel tempo in Medio Oriente. Ma perché dare a Gesù un soporifero? A meno che l'azione, come tutti gli altri fattori della Crocifissione, facesse parte di uno stratagemma complesso e ingegnoso, uno stratagemma ideato per causare una morte apparente quando il condannato, in effetti, era ancora vivo. Lo stratagemma avrebbe non soltanto salvato la vita di Gesù, ma avrebbe anche realizzato le profezie dell'Antico Testamento riguardanti il Messia.
La Crocifissione presenta altri aspetti anomali che fanno pensare appunto a uno stratagemma del genere. Secondo i Vangeli, Gesù viene crocifisso in un luogo chiamato Golgota, "il luogo del teschio". La tradizione più tarda tenta di identificare il Golgota con una collina spoglia, più o meno a forma di teschio, situata a nord-ovest di Gerusalemme. Tuttavia i Vangeli chiariscono che il luogo della Crocifissione era molto diverso da una collina a forma di teschio. Il Quarto Vangelo è il più esplicito: "Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora deposto" (Giovanni 19:41). Gesù, dunque, non fu crocifisso su una collina spoglia a forma di teschio e neppure in un luogo riservato alle esecuzioni pubbliche. Fu crocifisso in un giardino dove c'era una tomba privata o nelle immediate vicinanze. Secondo Matteo (27:60), la tomba e il giardino erano proprietà di Giuseppe d'Arimatea, che secondo tutti i quattro Vangeli, era un ricco seguace segreto di Gesù.
La tradizione popolare raffigura la Crocifissione come un evento pubblico, al quale assistettero migliaia di persone. Eppure i Vangeli indicano circostanze ben diverse. Secondo Matteo, Marco e Luca, quasi tutti i presenti, incluse le donne, assistevano da lontano alla Crocifissione (Luca 23:49).
Sembrerebbe quindi evidente che la morte di Gesù non fu un avvenimento pubblico, bensì una crocifissione privata eseguita in una proprietà privata. Molti studiosi moderni sostengono che il luogo era probabilmente l'Orto di Getsemani. Se il Getsemani era proprietà di uno dei discepoli segreti di Gesù, questo spiegherebbe perché, prima della Crocifissione, potesse servirsene liberamente. È superfluo aggiungere che una crocifissione privata in una proprietà privata lascia considerevole spazio a un eventuale dubbio. Per il popolo, il dramma, come confermano i Vangeli Sinottici, sarebbe stato visibile solo da una certa distanza e quindi non sarebbe stato possibile accertarne la morte.
Una cosa del genere, ovviamente, avrebbe richiesto la connivenza di Ponzio Pilato o di un personaggio importante dell'amministrazione romana. In effetti, Pilato era un individuo crudele e tirannico, ma era anche corrotto e corruttibile. Il Pilato storico, ben diverso da come lo presentano i Vangeli, non avrebbe rifiutato di risparmiare la vita di Gesù, in cambio di una lauta somma e magari della garanzia che non vi sarebbero state altre agitazioni politiche. Quale che fosse il suo movente, non c'è dubbio che Pilato fosse già coinvolto nella faccenda: riconosce la pretesa di Gesù al titolo di Re dei Giudei. Esprime stupore (vero o finto) perché Gesù muore tanto presto. E c'è un fattore che forse è il più importante di tutti: permette a Giuseppe d'Arimatea di portar via il corpo di Gesù. Secondo la legge romana, a un uomo crocifisso veniva negata la sepoltura. Anzi, di solito venivano messi uomini di guardia per impedire che parenti o amici portassero via i cadaveri. La vittima era lasciata sulla croce, abbandonata agli elementi, ai corvi e agli avvoltoi. Eppure Pilato, violando clamorosamente la procedura, concede subito a Giuseppe d'Arimatea di portar via il corpo di Gesù. Questo attesta un'evidente complicità da parte di Pilato. E potrebbe attestare anche altre cose.






Poiché era vietato seppellire i crocifissi, è egualmente straordinario che Giuseppe ottenga ciò che ha chiesto.
Per quale ragione l'ottiene?
Che diritto aveva di richiedere il corpo di Gesù?
Se era un discepolo segreto, non poteva avanzare la richiesta senza rivelarsi. A meno che, Pilato sapesse già tutto o a meno che vi fosse un altro fattore favorevole a Giuseppe.
Vi sono ben poche notizie su Giuseppe d'Arimatea. I Vangeli riferiscono soltanto che era segretamente discepolo di Gesù, aveva grandi ricchezze e faceva parte del Sinedrio, il consiglio degli anziani che governava la comunità di Gerusalemme sotto gli auspici dei Romani. Sembrerebbe quindi evidente che Giuseppe avesse una notevole influenza e questa conclusione riceve conferma dalle sue trattative con Pilato e dal fatto che fosse proprietario di un appezzamento di terreno con una tomba privata.
Secondo altre tradizioni più tarde, Giuseppe è in qualche modo collegato alla famiglia di Gesù. Se era davvero così, questo gli avrebbe almeno dato una ragione plausibile per richiedere il corpo di Gesù: ben difficilmente Pilato avrebbe concesso a uno sconosciuto di portar via il cadavere di un uomo giustiziato, avrebbe potuto invece, in cambio di una somma cospicua, concederlo a un parente del morto. 

giovedì 4 aprile 2019

LA STRANA STORIA DI KASPAR HAUSER


Il caso è in assoluto il più straordinario mistero storico del XIX secolo. Il povero giovane fu anche il soggetto di un esperimento crudele, di quello che noi oggi chiamiamo "privazione sensoriale".
Il 26 maggio del 1828 Norimberga era pressoché deserta. Tutta la gente si era sparpagliata nei prati e nelle campagne vicine per festeggiare all'aperto la tradizionale giornata festiva (l'Ausflug). Verso le cinque del pomeriggio nella piazza era comparso un giovane male in arnese che era andato a gettarsi sfinito nelle braccia del signor George Weichmann. Il ragazzo era malnutrito e camminava in un modo strano e rigido. Weichmann prese la busta che il ragazzo gli porgeva e vide che era indirizzata al capitano del quarto squadrone, del sesto reggimento di cavalleria di stanza in città. Il giovane sembrava incapace di rispondere alle domande e l'unico verso che faceva era un curioso borbottio, tanto che Weichmann pensò fosse ubriaco. Sembrava un idiota. Ad esempio, aveva cercato di afferrare con le dita la fiamma di una candela e si era stupito quando si era sentito scottare. Quando gli era stato offerto del cibo, l'aveva osservato come se non avesse saputo che farne. Quando però vide del pane nero vi si era gettato sopra in modo famelico. Il grande orologio del campanile lo terrorizzava. Le sole parole che riusciva a pronunciare erano "Weiss nicht" ("Non so").
Nella busta erano contenute due lettere. La prima iniziava così:

"Onorevole Capitano. Le invio un giovane che intende servire sua maestà il re sotto le armi. Mi è stato consegnato il giorno 7 ottobre 1812. lo non sono che un povero lavoratore ed ho già i miei figli a cui accudire. La madre mi ha supplicato di prenderlo e allevarlo... Non ho potuto dirle di no. Per tutto il tempo che è rimasto con noi non gli ho mai permesso di uscire di casa."

Ovviamente, la lettera non era firmata. Nella seconda missiva c'era scritto:

"Questo ragazzo è già stato battezzato. Il suo nome è Kaspar. Se volete, però, potete dargli un altro nome. Suo padre era un militare di cavalleria. Quando avrà compiuto diciassette anni venga portato a Norimberga e consegnato al reggimento del sesto cavalleria, perché era a questo corpo che apparteneva suo padre. La sua data di nascita è il 30 aprile 1812. lo sono una ragazza povera in canna, non posso proprio crescerlo. Suo padre è morto."

Questa seconda lettera era probabilmente quella che il "povero lavoratore" anonimo aveva a sua volta ricevuto quando il ragazzo gli era stato affidato.
Condotto nell'ufficio della polizia, ricevuta una matita il giovane aveva scritto nome e cognome: Kaspar Hauser. A tutte le domande continuava a rispondere come sempre: non so.
La storia, tutto sommato, sembrava abbastanza chiara: un figlio illegittimo, abbandonato sulla soglia di qualche casa e pietosamente raccolto da qualche straniero.
Ma come mai era stato tenuto in casa per diciassette anni?
I piedi erano deboli e delicati:  sanguinava addirittura attraverso le scarpe! Segno che non era abituato a camminare. La pelle era chiara, pallida, come se fosse stato da sempre confinato nel buio. Ad un più attento esame si vide che le due lettere erano state vergate dalla stessa mano e nello stesso momento, non certo dunque sedici anni prima. Gli abiti che indossava sembravano rubati a uno spaventapasseri e certamente non erano suoi.
Forse qualcuno voleva depistare, confondere le tracce. Il giovane venne rinchiuso in una cella. Il secondino, che lo teneva d'occhio, notò che si trovava perfettamente a suo agio e che era capace di starsene fermo, immobile in un angolo per ore e ore senza apparente fatica. Non possedeva il senso del tempo, né dava segno di sapere che cosa fossero ore e minuti. Padroneggiava un modestissimo vocabolario. Diceva che voleva diventare un cavaliere proprio come suo padre (una frase che ripeteva in modo meccanico come un pappagallo). Tutti gli animali che vedeva, per lui, erano cavalli e si mostrava fortemente interessato a loro. Un giorno quando uno dei tanti visitatori che facevano la fila per poterlo andare a vedere in cella, gli aveva regalato un cavallino. Lo aveva ornato con nastrini, ci giocava in continuazione e ogni volta che era ora di mangiare pretendeva di imboccarlo. La gente sembrava non dargli fastidio, tanto è vero che non si preoccupava di svolgere in pubblico le sue funzioni corporali, completamente privo di qualsiasi senso del pudore. Sembrava non distinguesse la differenza fra uomo e donna: si riferiva alle persone dei due sessi chiamandole indifferentemente "ragazzi" (Junge). Era, comunque, dotato di una sensibilità a dir poco straordinaria. Se dei recipienti con caffè e birra si trovavano nella stessa stanza stava male e incominciava a vomitare. La vista e il sapore della carne gli provocavano nausea. Solo ad annusare il vino si ubriacava, una sola goccia di brandy mescolato in un bicchiere d'acqua l'aveva fatto ammalare. Udito e vista erano acutissimi: era in grado di vedere al buio, capacità che, dopo, seppe dimostrare in pubblico leggendo brani della Bibbia in totale mancanza di luce. Era così sensibile alle calamite da essere in grado di riconoscere il polo sud o il nord se solo l'ago indicatore era rivolto verso la sua persona. Distingueva i diversi metalli semplicemente passandovi la mano sopra, anche se erano coperti da un telo.
Dapprima Kaspar, che era sembrato un idiota, viveva come in un continuo intontimento. Come un animale, era terrorizzato dai temporali. Ma l'idea che si trattasse di un ritardato mentale venne ben presto abbandonata. Gli piaceva l'attenzione dei visitatori, che facevano la fila per andarlo a vedere. Ogni giorno che passava si faceva sempre più attento e perspicace, proprio come un bambino, imparava facendo esperienza. Anche il numero delle parole che utilizzava cresceva di giorno in giorno, assieme alla destrezza manuale. Imparò a usare forbici, penna e calamaio, fiammiferi. Mano a mano che la sua intelligenza aumentava anche l'aspetto fisico si modificava. Se prima appariva come il tipico idiota, rozzo, ottuso, maldestro e scostante, ora le fattezze del suo viso si erano modificate e i tratti si erano fatti più raffinati. Continuava però a camminare in modo molto strano: nella parte posteriore delle ginocchia, nel punto in cui una persona normale ha una infossatura, Kaspar aveva delle protuberanze, così che quando si sedeva per terra con le gambe distese, queste erano in contatto col pavimento per tutta la loro estensione. Quando imparò a parlare fu anche in grado di raccontare qualche episodio della sua vita. Ma la cosa non fece che aumentare il mistero. Dalle prime asserzioni si poteva ritenere che Kaspar fosse cresciuto in una stanza, non più spaziosa di un paio di metri quadrati, aerata e illuminata da una finestrella a grate. Non c'era un letto ma un semplice pagliericcio gettato sulla nuda terra. La celletta era così bassa da non permettergli di stare in piedi. Non vedeva mai nessuno. Ogni mattina al risveglio trovava pane e acqua. A volte l'acqua aveva un sapore più amaro e allora cadeva in un sonno profondo. Quando si ridestava scopriva che il pagliericcio era stato cambiato e che gli erano stati tagliati i capelli. Gli unici giocattoli che aveva erano tre piccoli cavalli di legno. Un giorno un uomo era entrato nella cella e gli aveva insegnato a scrivere il suo nome, Kaspar Hauser e a ripetere due sole frasi: "Voglio diventare un soldato" e "Non so". Finalmente una mattina si era svegliato vestito con gli abiti con cui lo avevano trovato. Poi era tornato quell'uomo che lo aveva fatto uscire all'aria aperta. Mentre si stavano allontanando dal luogo della sua prigionia, l'uomo gli raccontava che una volta soldato gli sarebbe stato dato un bel cavallo vero, tutto per lui. Il misterioso accompagnatore l'aveva quindi abbandonato alle porte di Norimberga.


In breve Kaspar divenne famoso e di lui si parlava in tutta la Germania. La cosa doveva preoccupare i suoi carcerieri: sicuramente, avevano pensato che una volta arruolato il ragazzo sarebbe finito nel dimenticatoio e nessuno se ne sarebbe più occupato. Ora, invece, attorno a lui si era creato un caso nazionale: tutti si ponevano domande e tutti investigavano.
Il borgomastro e il consiglio di Norimberga stabilirono di assumere Kaspar sotto la protezione della città. Sarebbe stato mantenuto a spese della comunità. Nella spenta e monotona Norimberga del tempo, in effetti, il ragazzo misterioso rappresentava un motivo di interesse. Tutti volevano venire a capo dell'enigma. In città comparvero migliaia di volantini in cui si chiedeva alla popolazione di contribuire alla ricerca e si prometteva un premio consistente a chi avesse offerto notizie decisive al riconoscimento di Kaspar. Da parte sua, la polizia prese a setacciare i dintorni della città e la campagna tutto attorno per rintracciare la cella d'isolamento. Doveva trattarsi, ovviamente, di un posto non lontano da Norimberga. Ma non si venne a capo di nulla.
Fra le molte iniziative, il consiglio cittadino decise di affiancare a Kaspar un accompagnatore che lo assistesse continuamente. Venne prescelto il professor Georg Friedrich Daumer. Questi era particolarmente interessato agli studi di "magnetismo animale" ed era stato lui che aveva condotto gli esperimenti in cui Kaspar aveva dimostrato di distinguere anche al buio la diversa polarità di una calamita. Sotto la guida attenta e curiosa di Daumer, Kaspar si trasformò in un giovane uomo dalla normale intelligenza. Come tutti i giovani, amava stare al centro dell'attenzione: divenne addirittura frivolo. Insomma, rientrò pure lui nella piena normalità. 


Uno dei più colti e preparati personaggi che visitarono e studiarono Kaspar fu l'avvocato e criminologo Anselm Ritter von Feuerbach, rinomato autore del codice penale bavarese. Egli giunse alla conclusione che nelle vene del ragazzo scorreva sangue nobile. D'altro canto, l'unica ipotesi plausibile per il suo imprigionamento non poteva che essere una sola: si trattava di un erede indesiderato.
Ovviamente, a Kaspar questa nuova non dispiaceva.
Passati diciassette mesi dal suo "ritrovamento", qualcuno aveva tentato di ucciderlo. Il 7 ottobre del 1829, Kaspar era stato trovato riverso esanime sul pavimento della stanza che occupava nella casa del professor Daumer. Sanguinava dal capo a causa di una vasta lacerazione e aveva la camicia stretta attorno alla vita. Una volta ripresosi, aveva detto di essere stato aggredito da un uomo, con il volto coperto da una maschera, per non farsi riconoscere, che lo aveva colpito con un bastone. La polizia si era messa subito in azione, scandagliando la città, ma non venne a capo di nulla. Qualcuno, allora, incominciò a ventilare l'ipotesi che in realtà non c'era mai stato un aggressore e che si trattava di una messa in scena architettata dallo stesso Kaspar per riguadagnare quell'attenzione ormai persa. Il ragazzo, di certo, non era uno stinco di santo. Tuttavia, una parte dell'opinione pubblica temeva per la sua vita. Si decise di spostarlo in una nuova dimora, dove era continuamente sorvegliato da una coppia di agenti, mentre Ritter von Feuerbach venne riconosciuto come suo custode e padrino.


Nei due anni che seguirono Kaspar uscì dalla vita pubblica, ma non certo dall'immaginazione e dalla curiosità della gente. Ora che la novità della sua avventura si era spenta, erano in tanti a protestare con l'amministrazione pubblica per le spese che la cittadinanza si doveva sobbarcare per il suo mantenimento.
Venne allora proposta una soluzione che accontentò tutti. Un ricco ed eccentrico inglese, Lord Stanhope, nipote del primo ministro Pitt, interessato al caso di Kaspar, aveva voluto conoscerlo e intervistarlo. Fra i due era nata una forte simpatia sin dalle prime battute. Anche Stanhope era convinto che il giovane fosse di nobile stirpe ed era grandemente affascinato dal suo mistero. Così quando offrì a Kaspar un viaggio per l'Europa, l'intera Norimberga trasse un respiro di sollievo. Tra il 1831 e il 1833 Kaspar Hauser venne presentato e introdotto presso alcune corti minori europee, dove non mancò di suscitare grande interesse e emozioni. Anche se alcuni membri delle case reali della Baviera, in particolare quella di Baden, lo respinsero, timorosi di andare incontro a spiacevoli conseguenze legali, nel momento in cui il loro nome e il loro casato venisse accostato a quello di Kaspar.
Ma tutto questo sfarzo si rivelarono poco adatti al carattere e al temperamento di Kaspar. Come era prevedibile, il giovane divenne vacuo, vanitoso e bizzoso. In breve Stanhope ne fu deluso. Quando nel 1833 il viaggio fu concluso e tornarono a Norimberga, Lord Stanhope inoltrò formale domanda al consiglio cittadino di Norimberga per poter trasferire Kaspar nella vicina cittadina di Ansbach, dove sarebbe vissuto sotto le cure di un suo amico, il dottor Mayer e custodito per la sua sicurezza da un certo capitano Hickel. Dopo di che, sollevato dall'aver eseguito quello che probabilmente aveva ritenuto fosse un suo compito, Lord Stanhope se n'era tornato in Inghilterra.
Poi, appena qualche giorno prima di Natale, Kaspar era morto. Il 14 dicembre 1833, in un pomeriggio di neve, si era presentato alla porta di Mayer, ansimando: "Un uomo, un uomo mi ha accoltellato ... un coltello ... Hofgarten ... la borsa ... presto andate a vedere".


Un medico, chiamato d'urgenza, riscontrò che Kaspar era stato accoltellato sul fianco. Un polmone e il fegato erano stati gravemente danneggiati. Hickel si era subito precipitato nel parco dove il ragazzo stava passeggiando e aveva trovato una borsa di seta piena di monete contenente un biglietto scritto al contrario che diceva: "Hauser sarebbe in grado di dirvi come sono, da dove vengo e chi sono. Ma per risparmiargli questa incombenza lo farò io stesso. lo vengo da ... sul confine della Baviera ... Sul fiume ... Il mio nome è M.L.O." 
Kaspar non seppe fornire alcun ragguaglio a proposito dell'identità dell'uomo. L'unica cosa che seppe dire fu di aver ricevuto un messaggio da un fattorino in cui veniva invitato ad andare nel parco di Hofgarten. Qui aveva incontrato un uomo alto, il quale con una voce bisbigliante gli aveva chiesto: "Siete voi Kaspar Hauser?"
Al suo assenso, gli aveva consegnato la borsetta e poi l'aveva accoltellato, scappando all'istante. Tra le altre cose, Hickel osservò anche un dettaglio molto importante che rese sin da subito dubbia la storia: nella neve si poteva notare soltanto una serie di impronte, quelle di Kaspar. Ma quando due giorni dopo, il 17 dicembre, per la gravità delle ferite, il ragazzo era entrato in coma, una delle ultime cose che aveva detto era stato: "Non sono stato io, non l'ho fatto da solo."
La sua morte fu il segnale per lo scatenarsi di pubblicazioni e pamphlets, in cui ciascun autore proponeva la sua ipotesi. Feuerbach diede alle stampe un lavoro dal titolo "Esempio di un crimine perpetrato contro l'anima di un uomo", continuando a sostenere l'idea che Kaspar avesse sangue reale nelle vene. Per evitare grane, non faceva nomi e cognomi, tuttavia l'opinione pubblica non ebbe difficoltà a immaginarne qualcuno. In cima alla lista c'era, per esempio, il granduca di Baden. Si trattava, ovviamente, di una storia fantasiosa che presupponeva un allontanamento quand'era neonato e la consegna a un "guardiano". Seguendo questa teoria, l'uomo sarebbe stato Franz Richter. Lui avrebbe rinchiuso Kaspar in una segreta del castello di Pilsach, nei pressi di Norimberga. (Il castello era infatti un'immensa fattoria). Alla morte della madre, Richter avrebbe spedito il ragazzo a Norimberga. Ma, in realtà, erano tutte supposizioni e non esisteva alcuna prova evidente né per questa né per altre ipotesi.
Come non c'era prova alcuna che Kaspar fosse di sangue blu. Se davvero fosse stato l'erede a qualche trono o anche soltanto di qualche consistente fortuna, diventa difficile spiegarsi come mai era stato trattato con tanta durezza, imprigionato in una celletta angusta, dal momento che non sarebbero certo mancati i fondi per farlo crescere assistito in qualche posto lontano. Piuttosto, viene da osservare che l'inumano trattamento cui venne sottoposto è più tipico di una gretta mentalità contadina. L'ipotesi che Kaspar fosse il figliastro di un granduca non sembra più accreditata di quella che lo vede nei panni di erede illegittimo della figlia di qualche rispettabile fattore ingravidata da un signorotto locale e spaventata dall'eventualità che il suo segreto potesse diventare oggetto di pettegolezzo per la gente del posto.

martedì 2 aprile 2019

LA MOGLIE DI GESU'


Se Gesù era sposato, nei Vangeli c'è qualche indicazione circa l'identità di sua moglie? (Si consiglia di leggere anche: "Il Vangelo della moglie di Gesù" cliccando su questo link.
A un primo esame sembrerebbe che vi siano due possibili candidate: le due donne che, oltre a sua madre, sono ricordate più volte nei Vangeli come appartenenti alla cerchia di Gesù. La prima è la Maddalena o più esattamente Maria del villaggio di Migdal, o Magdala, in Galilea. In tutti i quattro Vangeli il ruolo di questa donna è stranamente ambiguo e ha tutta l'aria di essere stato volutamente oscurato. Nelle versioni di Marco e Matteo, la Maddalena viene menzionata per nome solo verso la fine. Compare in Giudea al momento della Crocifissione e figura tra i seguaci di Gesù. Nel Vangelo di Luca, invece, appare relativamente presto nel magistero di Gesù, quando questi sta ancora predicando in Galilea. Quindi, sembra che lo accompagni dalla Galilea alla Giudea o che almeno si sposti da una provincia all'altra come fa Gesù. Già questo indica che la Maddalena doveva essere sposata con qualcuno. Nella Palestina dei tempi di Gesù sarebbe stato impensabile che una donna non sposata viaggiasse senza accompagnatori ufficiali e soprattutto che viaggiasse insieme a un capo religioso e ai suoi seguaci. Diverse tradizioni sembrano consapevoli di questa situazione potenzialmente imbarazzante. Perciò a volte viene detto che la Maddalena era la moglie di uno dei discepoli di Gesù. Se era così, però, il suo speciale rapporto con Gesù li avrebbe esposti entrambi a sospetti o persino ad accuse di adulterio. Nonostante la tradizione popolare, nessuno dei Vangeli dice che la Maddalena era una prostituta. Quando viene menzionata per la prima volta, nel Vangelo di Luca, è presentata come una donna "dalla quale erano usciti sette demoni". In genere si presume che questa frase alluda a un esorcismo compiuto da Gesù e sottintenda che la Maddalena era stata vittima di una possessione diabolica. Ma la frase può riferirsi anche a una specie di conversione o rito d'iniziazione. Il culto di Ishtar o Astarte - la Dea Madre - comportava, ad esempio, un'iniziazione in sette fasi. Prima di legarsi a Gesù in un modo o nell'altro, la Maddalena poteva essere stata associata a un culto di questo tipo. Migdal, o Magdala, era il Villaggio delle Colombe e vi sono prove che venissero allevate colombe destinate al sacrificio. E la colomba era sacra ad Astarte.
Nel capitolo precedente a quello dove parla della Maddalena, Luca allude a una donna che unse Gesù. Nel Vangelo di Marco c'è una simile unzione a opera di una donna innominata. Né Luca né Marco identificano esplicitamente questa donna con la Maddalena. Ma Luca riferisce che si trattava di una peccatrice. I commentatori hanno desunto che la Maddalena, poiché da lei erano usciti sette diavoli, dovesse essere stata una peccatrice. Di conseguenza la donna che unge Gesù e la Maddalena finirono per venire identificate come una sola persona. In effetti, può darsi che fosse vero. Se la Maddalena era associata a un culto pagano, questo avrebbe sicuramente fatto di lei una "peccatrice" non soltanto agli occhi di Luca, ma anche di autori più tardi. Appare chiaro che fosse benestante o ricca. Luca riferisce, ad esempio, che tra le sue amiche figurava la moglie di un alto funzionario della corte di Erode e che le due donne, insieme ad altre, aiutavano finanziariamente Gesù e i suoi discepoli. Anche la donna che unse Gesù era benestante: il Vangelo di Marco parla con insistenza della preziosità dell'unguento di nardo con cui fu compiuto il rito.
L'episodio dell'unzione di Gesù sembrerebbe avere un'importanza notevole. Altrimenti, perché sarebbe sottolineato dai Vangeli? Dato il rilievo che gli viene accordato, sembra trattarsi di ben più di un gesto impulsivo e spontaneo. Sembra un rito meticolosamente preordinato. Si deve ricordare che l'unzione era prerogativa dei re e del legittimo Messia (l'unto). Ne consegue che Gesù diviene un Messia autentico in virtù dell'unzione. E la donna che lo consacra in questo ruolo augusto difficilmente può avere un'importanza trascurabile.
In ogni caso, è evidente che la Maddalena, prima della fine del magistero di Gesù, era divenuta una figura immensamente significativa. Nei tre Vangeli Sinottici il suo nome apre l'elenco delle donne che seguirono Gesù, così come il nome di Simon Pietro apre l'elenco dei discepoli. E naturalmente, fu la prima a trovare la tomba vuota dopo la Crocifissione. Tra tutti i suoi seguaci, fu la Maddalena che Gesù prescelse per rivelare la propria Resurrezione.
In tutti i Vangeli, Gesù tratta la Maddalena in modo unico, preferenziale. È possibile che questo trattamento possa aver suscitato la gelosia di altri discepoli. Sembra piuttosto evidente che la tradizione successiva si adoperò per colorare in nero i precedenti della Maddalena, se non addirittura il suo nome. La trasformazione in prostituta può essere la reazione di seguaci vendicativi, decisi a macchiare la reputazione di una donna il cui legame con Gesù era più stretto del loro e che quindi fomentava un'invidia molto umana. Se i cristiani, quando Gesù era in vita o magari più tardi, nutrivano rancore nei confronti della Maddalena per il suo eccezionale legame con il loro capo spirituale, si può capire che cercassero di sminuirla agli occhi dei posteri. E non c'è dubbio che venne sminuita. Ancora oggi molti credono che fosse una cortigiana. Ma i Vangeli attestano che la donna che diede il nome a tali istituzioni non meritava affatto quella nomea.



Quale che sia la posizione della Maddalena nei Vangeli, non è la sola candidata possibile al ruolo di moglie di Gesù. Ce n'è un'altra, che ha una parte di spicco nel Quarto Vangelo e che può essere identificata come Maria di Betania, sorella di Marta e di Lazzaro. Maria e i suoi familiari appaiono chiaramente in stretti rapporti con Gesù. Si tratta di gente ricca: hanno una casa in un sobborgo elegante di Gerusalemme, abbastanza grande per ospitare Gesù e tutto il suo seguito. E c'è di più: l'episodio di Lazzaro rivela che la casa comprende una tomba privata: un lusso eccezionale a quei tempi, un segno non soltanto di opulenza, ma anche di una posizione sociale elevata. Nella Gerusalemme biblica, come in ogni città moderna, i terreni costavano carissimi e ben pochi potevano permettersi il lusso di una tomba privata.
Quando, nel Quarto Vangelo, Lazzaro si ammala e Gesù, che ha lasciato Betania da qualche giorno, si trova in riva al Giordano insieme ai discepoli. Quando viene informato dell'accaduto, indugia per due giorni - una reazione piuttosto curiosa - e quindi torna a Betania, dove Lazzaro giace nella tomba. Gesù si avvicina e Marta gli va incontro e grida: "Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!" (Giovanni 11:21).
 L'episodio è significativo perché Marta, quando va incontro a Gesù, è sola. Ci si aspetterebbe che sua sorella Maria fosse con lei. Invece Maria sta seduta in casa e non esce fino a quando Gesù non le ordina esplicitamente di farlo. Il particolare diviene più chiaro nel Vangelo segreto di Marco, scoperto dal professor Morton Smith e citato in un post precedente. Nel racconto soppresso, sembrerebbe che Maria esca dalla casa prima che Gesù glielo comandi. E viene prontamente rimproverata dai discepoli, che Gesù è costretto a far tacere. Secondo la consuetudine ebraica, ella doveva "sedere in Shiveh": sedere in lutto. Ecco perché non accompagna Marta, perché non si precipita incontro a Gesù che ritorna. Secondo i dettami della legge ebraica di quel tempo, una donna che "sedeva in Shiveh" non poteva uscire di casa se non per ordine espresso del marito. In questo episodio il comportamento di Gesù e di Maria di Betania corrisponde in modo esatto al comportamento tradizionale di un Ebreo e di sua moglie.
C'è un altro indizio a favore di un possibile matrimonio tra Gesù e Maria di Betania. Appare nel Vangelo di Luca: "Mentre erano in cammino, [Gesù] entrò in un villaggio e una donna di nome Marta lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti disse: - Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti - Ma Gesù le rispose: - Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta."  (Luca 10: 38-42)
A giudicare dalle parole di Marta, sembra evidente che Gesù eserciti su Maria una sorta di autorità. Ancora più importante, tuttavia, è la risposta di Gesù che attesta chiaramente che Maria di Betania era una discepola ardente quanto la Maddalena.
Vi sono buone ragioni per identificare la Maddalena con la donna che unge Gesù. È possibile che fosse identificabile anche con Maria di Betania, sorella di Lazzaro e di Marta?
È possibile che queste donne, presentate nei Vangeli in tre contesti diversi, siano in realtà un'unica persona? La Chiesa medievale le vedeva così, non diversamente dalla tradizione popolare. Oggi, molti studiosi biblici sono d'accordo. Vi sono abbondanti indizi che confermano questa conclusione, I Vangeli di Matteo, Marco e Giovanni, ad esempio, dicono tutti che la Maddalena era presente alla Crocifissione. Nessuno, invece, cita Maria di Betania. Ma se Maria di Betania era una discepola tanto devota, la sua assenza sembrerebbe a dir poco strana.
È credibile che lei, per non parlare di suo fratello Lazzaro, non assistesse al momento culminale della vita di Gesù?
L'omissione sarebbe inspiegabile e reprensibile, a meno che fosse presente e venisse citata dai Vangeli sotto il nome di Maddalena. Se la Maddalena e Maria di Betania sono la stessa persona, allora la seconda non figura più come assente alla Crocifissione.
La Maddalena può essere identificata con Maria di Betania. E può essere identificata anche con la donna che unse Gesù. Il Quarto Vangelo identifica con Maria di Betania la donna che unse Gesù. Anzi, l'autore del Quarto Vangelo è molto esplicito: "Era allora malato un certo Lazzaro di Betania, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella. Maria era quella che aveva cosparso d'olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato." (Giovanni 11:1-2).
E di nuovo, nel capitolo successivo: "Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli e tutta la casa si riempì del profumo dell'unguento." (Giovanni 12: 1-3).
È dunque chiaro che Maria di Betania è la donna che cosparge d'unguento Gesù. Se non è altrettanto chiaro, è certo probabile che questa donna sia anche la Maddalena. Se Gesù era veramente sposato, a quanto sembra c'è una sola candidata al ruolo di sua moglie: una donna che appare più volte nei Vangeli sotto nomi diversi.