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sabato 24 agosto 2019

IL PESO DELL'ANIMA


Il 10 aprile 1901, a Dorchester, in Massachusetts, fu condotto un insolito esperimento: il dottor Duncan Mc Dougall si apprestava a dimostrare che l’anima umana ha una massa e che questa era quindi  misurabile.
Condusse  l’esperimento su sei pazienti, moribondi, il cui peso fu misurato, con estrema precisione, prima, dopo e nel momento stesso della morte. L’intenzione era di rilevare eventuali differenze di peso corporeo.  I pazienti furono selezionati in base alle loro gravi condizioni di salute e scelti tra coloro per i quali si prevedeva una morte imminente. Due pazienti erano affetti da tubercolosi, cinque erano uomini mentre l’altro era una donna.
Coadiuvato da altri quattro medici, il dottor Mc Dougall misurò con attenzione il peso del suo primo paziente prima della morte. Quando il paziente morì, si verificò un evento interessante: improvvisamente, qualche frazione di secondo dopo la morte, il peso corporeo risultò inferiore di pochi grammi. Era un primo, rilevante indizio sul peso dell’anima.
L’esperimento fu ripetuto su un altro paziente con gli stessi risultati. Il Dott. Mc Dougall si sentiva di aver scoperto un indizio straordinario. Una citazione dall’articolo dell’11 marzo 1907  sul New York Times descrive il momento storico: 


“Quando il paziente ha cessato di vivere, immediatamente il bilancino è caduto dalla parte opposta, con una velocità e una tempistica sorprendenti, come se qualcosa avesse improvvisamente abbandonato il corpo“.
 
 
Tutti e cinque i medici confrontarono i loro risultati. Non tutti i pazienti avevano perso lo stesso peso corporeo, ma le differenze erano minime e non riguardavano qualcosa di percepibile e concretamente individuabile. Purtroppo, per motivi tecnici fu possibile ponderare solo quattro risultati su sei.
Cosa provocava quella perdita di peso? Furono prese in considerazione diverse ipotesi: dall’aria nei polmoni ai fluidi corporei. Ma ciò non spiegava affatto il fenomeno. Una variante interessante si verificò nel terzo paziente, che mantenne il suo stesso peso dopo la morte. Tuttavia, il calo si verificò dopo un minuto. Il Dott. MacDougall spiegò questa discrepanza nel seguente modo: 




“Credo che in questo caso, quello di un uomo flemmatico, l’anima sia rimasta sospesa nel corpo dopo la morte, durante il minuto che intercorre prima della sua emancipazione. Non c’è altro modo di renderne conto, ed è quello che ci si potrebbe aspettare che accada in un uomo di temperamento simile a quello del soggetto“.
 
 
Dopo gli esperimenti, confrontando i risultati dei medici presenti, venne stabilito che la perdita media di peso per ciascuna persona era di ¾ di oncia. Il Dott. Mc Dougall concluse che l’anima umana pesava circa 21 grammi.

 

Condusse lo stesso esperimento su 15 cani, ma gli esperimenti non mostrarono alcun cambiamento di peso corporeo dopo la loro morte. Questo sembrava dimostrare che “solo gli esseri umani hanno un’anima”.
H.Twining, insegnante di fisica di Los Angeles, tentò lo stesso esperimento sui topi nel 1917. Le sue conclusioni sono in linea con quelle del dottor Mc Dougall: non fu riscontrata alcuna variazione di peso quando i topi morirono. Il peso dell’anima era, a quanto pare, una questione prettamente umana.
Questi esperimenti suscitarono interesse e critiche, che vanno dalla metodologia utilizzata alle conseguenti implicazioni religiose.
Il Dott. Mc Dougall pur ammettendo che la ricerca doveva essere approfondita, non proseguì gli esperimenti. Sarebbe stato interessantissimo, per esempio, effettuare sofisticati rilievi fotografici per tentare di immortalare la fuga dell’anima dal corpo.
Mc Dougal è scomparso nel 1920. Nel 2003 venne realizzato un film (21 grammi) che riporta sul grande schermo la storia e i suoi esperimenti.

venerdì 23 agosto 2019

UNA BEN STRANA VICENDA

Tutto cominciò nell'ottobre del 1979, quando due coppie di sposi provenienti da di Dover partirono insieme per una vacanza, con l'intenzione di attraversare la Francia e la Spagna. Geoff e Pauline Simpson e i loro amici Len e Cynthia Sisby salirono su una nave che li condusse attraverso la Manica fino alla costa francese. Qui noleggiarono un'automobile e si diressero verso sud. Alle 21:30 di quella prima sera, il 3 ottobre, cominciando a sentirsi stanchi, cercarono un posto dove passare la notte. Usciti dall'autostrada, trovarono un motel dall'aria elegante.
Len entrò e nell'atrio incontrò un individuo che indossava una antiquata uniforme color prugna. L'uomo disse che non c'erano stanze libere, ma che più a sud, lungo la strada, avrebbero potuto trovare un piccolo hotel. Len lo ringraziò e ripartì coi suoi compagni di viaggio. La strada da scorrevole nastro d’asfalto divenne un’antica via lastricata. Sobbalzando sull’acciottolato, nel buio disturbato solo dai fari della propria auto, continuarono l’escursione. Videro anche dei cartelli che facevano pubblicità a un circo.
- Erano molto all'antica - ricordò Pauline - per questo hanno suscitato in noi tanto interesse. 
Alla fine i turisti videro un lungo e basso edificio con una fila di finestre illuminate. Degli uomini se ne stavano davanti alla facciata e quando Cynthia chiese loro delle informazioni risposero che il posto era un'osteria, per trovare l’albergo avrebbero dovuto proseguire. I viaggiatori proseguirono finché videro due costruzioni: un posto di polizia e un albergo. Entrati nell’albergo, notarono subito i tavoli della sala da pranzo in legno intagliato rozzamente e non c’era traccia delle tovaglie che normalmente vengono usate dagli albergatori per abbellire l’ambiente. Len continuò a guardarsi intorno, imitato dagli altri, e non vide traccia di telefoni o ascensori.
Giunse il momento di farsi consegnare la chiave delle camere. La persona dietro il bancone scosse la testa e fece loro segno di seguirlo al piano superiore. Perplessi e vagamente divertiti dall’atmosfera spartana, decisero di pernottare lì. Viaggiare di notte alla ricerca di una sistemazione migliore non sembrava una buona idea. Quello doveva essere l’ultimo posto con camere disponibili nell’arco di chissà quanti chilometri. Si erano allontanati parecchio dall’autostrada e dagli altri centri abitati.
Anche le stanze erano insolite. I letti avevano lenzuola pesanti ed erano privi di cuscini. Le porte non avevano serrature, ma solo paletti di legno. La stanza da bagno, che le due coppie dovettero condividere, aveva tubature antiquate. Le due coppie, conquistate da quella che credevano un’originale attrazione turistica francese basata sul fascino dell’antico, cenarono senza lamentarsi delle stoviglie e delle scarse pietanze. Poi si ritirarono nelle loro camere per riposare. Si svegliarono quando la luce del sole filtrò attraverso le finestre, che consistevano soltanto di persiane di legno, senza vetri. I quattro ospiti scesero di buon umore nella sala da pranzo, aspettandosi una colazione simile alla cena. Infatti fu così: dovettero accontentarsi solamente di un caffè molto forte e senza zucchero che Geoff giudicò orribile.
Mentre erano ancora a tavola, una donna con un abito da sera di seta e con un cagnolino sotto il braccio si sedette di fronte a loro. - Era strano - aggiunse Pauline - sembrava che fosse appena tornata da un ballo, ma erano le otto di mattina. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso.
A questo punto entrarono due gendarmi.
- Le loro uniformi sembravano antiche - testimoniò Geoff. 
I poliziotti indossavano divise blu scuro, con cappe sulle spalle e cappelli larghi e a punta. Nonostante queste stranezze, le due coppie si divertirono e quando furono rientrate nelle loro stanze i due mariti scattarono, separatamente, delle foto alle loro mogli in piedi davanti alle finestre con le persiane chiuse.
Prima di ripartire Len e Geoff chiesero ai gendarmi quale fosse la strada migliore per raggiungere Avignone e il confine spagnolo. I tutori dell'ordine diedero l'impressione di non capire il significato della parola “autostrada” e i turisti pensarono di aver pronunciato male la parola in francese. Le indicazioni che ricevettero non li soddisfecero perché avrebbero dovuto seguire una vecchia strada qualche chilometro fuori dall'itinerario. Decisero invece di basarsi sulla cartina topografica e di prendere una via più diretta lungo la statale.
Dopo che i loro bagagli furono caricati in macchina, Len andò a pagare il conto e rimase di stucco quando il direttore chiese soltanto 19 franchi. Pensando a un equivoco, Len spiegò che erano in quattro e che avevano consumato un pasto. Il direttore si limitò ad annuire. Len mostrò il conto ai gendarmi, che gli assicurarono sorridendo che non era stato tralasciato niente. Pagò in contanti e partì prima che potessero cambiare idea.
 
 
Al ritorno, dopo aver trascorso due settimane in Spagna, le due coppie decisero di fermarsi di nuovo all'albergo. Là avevano passato ore piacevoli e interessanti e a prezzi sicuramente imbattibili. La notte era piovosa e fredda, la visibilità scarsa, ma trovarono la deviazione e notarono il manifesto del circo che avevano già visto.
- Sì, certo, è la strada giusta - osservò Pauline. 
Lo era, ma non trovarono nessun albergo. Convinti di esserci passati davanti senza notarlo per un motivo o per l'altro, tornarono indietro fino al hotel dove erano stati ragguagliati dall'uomo dall'uniforme color prugna. L’hotel c’era, ma non l'uomo vestito così stranamente e l'impiegato negò che un tipo del genere lavorasse là.
Per tre volte rifecero la strada alla ricerca di qualcosa che, come cominciavano a rendersi conto, non c'era più. Era svanito senza lasciar traccia. Si diressero verso nord e pernottarono in un albergo di Lione. Stanze con comfort moderni, colazione e pranzo costarono loro 247 franchi. Al loro ritorno a Dover, Geoff e Len fecero sviluppare i loro rispettivi rullini fotografici. Ma quando andarono a prendere le foto, quelle scattate all'interno dell'albergo mancavano. Non c'erano negative non riuscite. Ogni pellicola aveva per intero il suo numero di pose. Era come se le foto non fossero mai state scattate. In entrambi i casi le fotografie scattate all’esterno dell'albergo (una soltanto di Geoff, due di Len) si trovavano a metà del rullino. In seguito, un giornalista della televisione dello Yorkshire, notò un piccolo, ma significativo particolare: c'era prova del fatto che la macchina fotografica avesse cercato di riavvolgere la pellicola, proprio a metà del rullino. Le perforazioni delle negative apparivano danneggiate.
Per molto tempo, le due coppie di amici parlarono solo con amici e familiari della loro esperienza. Un loro amico trovò un libro che mostrava che i gendarmi portavano le uniformi da loro descritte prima del 1905. Alla fine un cronista di un giornale di Dover venne a saperlo e pubblicò un servizio. Più tardi una stazione televisiva locale produsse una ricostruzione sceneggiata dell'episodio.
Nel 1985 lo psichiatra di Manchester Albert Keller ipnotizzò Geoff Simpson per vedere se fosse in grado di ricordare qualcosa di più dello strano evento. Ma, anche sotto ipnosi, egli non aggiunse niente di nuovo a quanto ricordava consciamente.
Che cosa realmente avvenne ai quattro viaggiatori nelle campagne francesi?
Ci fu uno sbalzo temporale? È l’ipotesi più plausibile. Ma perché, allora, il direttore dell'albergo non parve sorpreso per il loro veicolo e per i loro abiti avveniristici e come mai accettò le loro banconote del 1979, che senza dubbio sarebbero sembrate strane a chiunque vivesse così indietro nel passato?
I nostri viaggiatori non seppero dare nessuna spiegazione: - Noi sappiamo soltanto che è successo – fu la risposta di Geoff.

lunedì 19 agosto 2019

LE STREGHE


Poteva capitare a chiunque e infatti capitò a milioni di donne in tutta Europa, bruciate vive perché troppo libere intellettualmente e sessualmente. Pensate che in tre secoli alcuni storici hanno stimato che furono sterminati nove milioni di streghe, l’80% delle quali erano donne o addirittura bambine.
Molte personalità famose caddero vittime dell’Inquisizione. La più nota è senza dubbio Giovanna d’Arco, la pastorella che assunse il comando dell’esercito, salvò la Francia dall’invasione nemica e rimise in trono il legittimo sovrano. Fu però accusata di stregoneria ed eresia perché indossava i pantaloni e cavalcava come un uomo, quindi, fu bruciata viva. Oggi la stessa Chiesa che la condannò l’ha resa santa.
A dire il vero, sia uomo che donna, oggi come allora, chiunque usa la testa costituisce una minaccia alla ricchezza e al potere di una minoranza di privilegiati e va quindi eliminato.
 
 
Tra il XV e il XVIII secolo furono celebrati in tutta Europa, oltre 100.000 processi. Numeri impressionanti, confermati da esempi drammatici: alla fine del 1500, nel principato tedesco di Eichstatt, in un solo anno 274 persone furono condannate per stregoneria. Nella contea di Quedllimburg, addirittura 133 persone in un solo giorno. Una vera e propria persecuzione che raggiunge il parossismo in paesi come la Germania, i Paesi Bassi, l’Inghilterra, la Francia settentrionale e la Svezia; ove si consumarono gli episodi più efferati.
In Italia e in Spagna, invece, la furia inquisitrice preferiva accanirsi contro gli eretici, i musulmani e gli ebrei. Ma, all’inizio del XVI secolo, anche l’Italia ebbe i suoi roghi per stregoneria: 165 donne furono processate in val Camonica tra il 1518 e il 1521 (65 furono bruciate); a Bologna, nel 1523 furono celebrati 60 processi e 10 imputate finirono sul rogo. Il triste primato di oltre 1000 procedimenti tra il 1519 e il 1522 va alla città di Como.
L’atteggiamento dell’inquisitore nei confronti della stregoneria era paragonabile a quello che potrebbe avere un medico nei confronti di una  malattia infettiva e molto contagiosa. La “cura” era immediata e definitiva: il rogo. Furono secoli di terrore con poche voci di dissenso. Come quella di Frederich Spee, padre gesuita, che nel 1600 scrisse: 


“Le accompagnavo al rogo: erano tutte condannate, mentre io sapevo che erano tutte innocenti. E poteva capitare a chiunque”.

 
Le vittime venivano accompagnate dalla folla, a partire dal carcere, fino alla piazza principale dove era stato preparato il rogo. Agli eretici e alle streghe veniva proposto l’atto di fede: la vittima, fatta salire sulle cataste di legno, veniva legata al palo mentre si ordinava al boia di appiccare il fuoco. Se il condannato si pentiva, otteneva il “privilegio” di venire strangolato prima di essere arso vivo tra le fiamme.
In realtà, la morte veniva provocata non dal fuoco, bensì dall’asfissia, prodotta dai fumi stracarichi di gas e prodotti dalla combustione. Ora, qualche devoto si chiederà come mai proprio la Chiesa ricorresse a simili crudeltà. La risposta è che, 500 anni fa, tale azione era considerata crudele ma necessaria e tanti ecclesiastici, durante questi secoli bui, pensavano davvero che questi rimedi sarebbero riusciti a salvare il mondo dall’invasione del Maligno.
 
 
Ma chi erano le streghe?
Anche se esiste una letteratura che ne fa delle vere e proprie eroine, consapevoli dei loro diritti e in opposizione a una cultura religiosa che le voleva sottomesse, in realtà non avevano nulla di così epico. In generale erano donne del popolo, donne marginali che lavoravano nella marginalità. Non adoravano Satana, ricorrevano piuttosto al demonio per ottenere vantaggi. Alcune agivano nell’illegalità, per ottenere aborti, filtri d’amore, malocchi. Ma c’erano anche donne che assistevano ai parti, levatrici che conoscevano i poteri curativi delle erbe, per tradizione millenaria.
Tanti processi furono condotti contro donne giovanissime o molto anziane, sostiene lo scrittore Valerio Evangelisti. Delle prime si temeva l’avvenenza e le forme provocanti e tentatrici, delle altre la decadenza, il declino sessuale. Senza contare il “Malleus maleficarum”, che chiamava le donne “femine”, da fe-minus. Un modo come un altro per dimostrare che le donne avevano meno fede degli uomini ed erano, per natura, portate alla lascività, alle pratiche occulte vietate e alla terribile magia nera.
Il “Malleus maleficarum”, detto anche “Martello delle streghe“, fu pubblicato su mandato specifico del Papa Innocenzo VIII nel 1486 da Kramer e Sprenger, due Inquisitori domenicani dell’Alsazia. Kramer e Sprenger descrissero attentamente il modo di vivere delle streghe, tratto dalle tradizioni popolari e dalle confessioni (rese sotto tortura). Quanto scritto nel “Malleus maleficarum” convinse la gente comune dell’esistenza di un vero pericolo. E così, attraverso la stampa, i libri, i sermoni, le caratteristiche della strega furono standardizzate e descritte in modo inequivocabile.
 

 
 
La magia e la stregoneria sono parte di una religione millenaria che risale all’età della pietra, l’epoca in cui gli uomini primitivi praticavano culti pagani per ottenere il favore delle divinità. I riti propiziatori indoeuropei delle prime civiltà, legati all’abbondanza, alla fertilità e alla prosperità dei raccolti, mescolavano il naturale al sovrannaturale: in queste cerimonie le donne venivano a contatto con gli spiriti dei boschi, dell’acqua, delle piante per ottenere fertilità, forza e salute.
Il termine strega cominciò a essere usato solo alla fine del 1300. A Milano, verso il 1390, ci fu un processo che vide come protagoniste delle “malefiche”, accusate di essere al servizio non di Satana, ma di una divinità pagana, chiamata Apulia. A quell’epoca la magia era ancora un termine impreciso. Si conoscevano 18 tipi di magia, di cui solo 1 negativo ed era quello che presumeva l’invocazione del demonio. Nei secoli precedenti i processi erano stati per lo più casi sporadici: ma dalla fine del Medioevo, per circa due secoli, iniziò la lotta contro quelle che venivano considerate “forze del maligno”.
Perché proprio allora?
In quel periodo, il mondo stava cambiano velocemente. Le città crescevano a dismisura e fiorivano i commerci, che stavano sostituendo le antiche attività contadine. Le mura fortificate delle città non erano, però, un baluardo capace di tenere a bada ogni pericolo. L’ordine razionale del mondo e l’armonia religiosa, tipiche del Medioevo, si erano ormai spaccate: con la riforma luterana e quella calvinista, la perdita di potere della Chiesa e l’instabilità economica e sociale provocarono  paura e incertezza che avevano bisogno di trovare un colpevole. La Chiesa, dotata di specifici tribunali, dovette dare una risposta alla paura dell’ignoto: le streghe diventarono il capro espiatorio di ogni problema.
L’Inquisizione non iniziò subito a occuparsi della stregoneria. In principio questo tribunale della Chiesa aveva il compito di vigilare sulle questioni di fede e difendere il dogma cristiano dalle eresie che ne minavano la solidità. Ma all’inizio del XVI secolo, grazie a una bolla papale di Innocenzo VIII, questi stessi tribunali vennero incaricati di lottare contro la piaga dilagante della stregoneria, che prima veniva contrastata in maniera sommaria e senza regole precise.
Le streghe vennero così definite “discepole del diavolo” e per fermare la loro opera “immonda” si poteva ricorrere a mezzi estremamente crudeli. Per ottenere la confessione di colpevolezza e di commerci con il maligno, venivano usate specifiche forme di tortura. Una pratica non solo tollerata dalla Chiesa, ma addirittura incoraggiata, dato che permetteva di arrivare in modo più rapido alla “verità” e allo stesso tempo, diminuiva i tempi di detenzione e i costi delle cause. I poteri speciali degli Inquisitori, poi, non lasciarono indifferenti prìncipi e regnanti, i quali cercarono di volgerli a proprio vantaggio. Si strinsero saldi legami tra l’Inquisizione ecclesiastica e gli Stati, che approfittarono di una temibile macchina repressiva, senza doversene assumere la responsabilità. In Francia, Germania e Spagna i tribunali secolari (comunque presieduti da figure religiose) si sostituirono via via all’Inquisizione religiosa, organizzando processi di una crudeltà inaudita e senza alcuna garanzia per gli imputati. Dal 1257 al 1816 l’Inquisizione torturò e bruciò sul rogo milioni di persone, tutte innocenti. Erano accusate di stregoneria e di eresia contro i dogmi religiosi e giudicate senza processo, in segreto, col terrore della tortura. Se “confessavano” erano dichiarate colpevoli di stregoneria, se invece “non confessavano” erano considerate eretiche e quindi arse sul rogo. Alcune erano sottoposte alla prova della pietra al collo: la presunta colpevole veniva gettata in acqua legata a una pietra. Se annegava era innocente, se invece restava a galla era una strega… in ogni caso moriva! Nessuno sfuggiva all’inquisizione.
 
 
Come abbiamo visto, stregoneria non vuol dire stringere un patto con il diavolo. Fin dalla notte dei tempi la magia si è espressa anche con figure mitiche di guaritori e indovini. Se le streghe rappresentavano l’incarnazione del male, esiste anche una fitta categoria di figure schierate dalla parte del bene, che grazie ai doni di chiaroveggenza, virtù taumaturgiche e poteri divinatori, poteva mettersi al servizio del benessere e della felicità. Indovini, chiaroveggenti, sibille, maghi, sacerdotesse e profeti, hanno infatti da sempre popolato la faccia della terra, fin dai tempi e dalle culture più remote.
Gli “aruspici” erano, nella religione etrusca, i sacerdoti che interpretavano il volere divino utilizzando e analizzando il fegato di animali. Rappresentanti di un’arte divinatoria giunta praticamente integra ai romani e da questi continuata per secoli, ci si rivolgeva a loro per interpretare i segni del cielo e i prodigi della natura. Insomma: tutto ciò che poteva essere una manifestazione del divino.
Le Sibille, invece, erano gli oracoli della cultura romana arcaica: esclusivamente di sesso femminile, isolate dal mondo, sembravano abitare in luoghi remoti sparsi fra l’Asia Minore, l’Africa e le coste occidentali del Mediterraneo. Alcuni pensavano che in realtà esistesse un’unica Sibilla, immortale, che si spostava in luoghi diversi: era la Sibilla Cumana, una delle figure più complesse e affascinanti dell’antichità. Veniva consultata solo in caso di estrema necessità e solo da un unico ordine di sacerdoti. La tradizione vuole che scrivesse i suoi responsi sulle foglie che poi il vento, penetrando nel suo antro, disperdeva.
Ma anche in epoche recenti il fascino degli indovini non viene a mancare: basti pensare a Michel de Notre Dame, noto ai più con il nome latinizzato di Nostradamus, uno tra i più famosi veggenti della storia recente. La sua figura, che ancora fa discutere, è avvolta nel mistero. La sua leggenda inizia nella Provenza francese, nella città natale di St. Remy, dove c’è ancora la sua casa. Scienziato e medico, viaggiò moltissimo in tutta Europa e raccolse le sue predizioni nelle famose “centurie”, scritte con un linguaggio che, secondo alcuni, ancora deve essere correttamente decodificato.

domenica 18 agosto 2019

I FANTASMI




Ho ceduto alle molteplici richieste di chi mi chiedeva, insistentemente, di parlare anche dei fantasmi. La mia riluttanza era dovuta al fatto che non sapevo come affrontare l’argomento. È vero, da cronista dell’insolito non avrei dovuto avere queste reticenze e le storie sui fantasmi, di certo, non mancano. Tuttavia, in questo specifico caso, mancava quell’approccio scientifico che spinge voi lettori a leggere le mie storie, magari instillando in voi quel po’ di curiosità che le rende interessanti. Insomma, come recita uno spot televisivo: “quello che vi spinge a cercare ciò che c’è di vero nella leggenda e di fantastico nella storia”.


 
Tutti conoscono i fantasmi, ma su cosa siano, in realtà, esistono svariate ipotesi, tutte confutabili o non comparabili poiché le varie teorie non si adattano a tutti i casi:
 
  • Residui spirituali.
Una persona, particolarmente legata a un posto, lascerebbe lì parte della sua essenza che perdurerebbe per diversi anni prima di consumarsi definitivamente. 
 
  • L’anima di un defunto.
Per un motivo importante, come ad esempio un’azione non compiuta o non terminata in vita, l’anima del defunto si attarderebbe sul nostro piano di esistenza finché non avrà compiuto ciò che per lui era importante o terminato ciò che aveva iniziato. 
 
  • Un’invenzione.
Sì, in fondo, la scienza afferma che non esistono prove di entità ultraterrene e che tutti gli esperimenti svolti in questo senso non hanno risolto i dubbi poiché, spesso, le testimonianze non sono verificabili e si è incorso in numerosi “falsi”. 
 
  • Allucinazioni.
A volte credere di vedere porta a convincersi di vedere effettivamente. Sono stati svolti esperimenti che hanno dimostrato che se si sparge la voce che un luogo sia infestato, pur non essendolo, molti tenderanno ad affermare che ci sia un fantasma e instaureranno una sorta di effetto domino influenzando e coinvolgendo altre persone. 
 
  • Mondi paralleli.
Assieme alla nostra realtà, coesistono altre realtà parallele, di solito invalicabili poichè separate da una barriera invisibile. Queste realtà coesisterebbero nello stesso tempo e nello stesso spazio, ma su piani dimensionali diversi. Di tanto in tanto, però, tra questi piani si genererebbe un “buco” attraverso il quale si vedrebbe qualcosa che succede altrove. I fantasmi sarebbero, quindi, entità di dimensioni parallele.
 
 
 
Un po’ di luce sull’annosa questione sembrerebbe averla gettata il caso del fantasma di Ash Manor.
I coniugi Keel, nel 1934, vennero tormentati dallo spettro di un uomo vestito con abiti tipici del 1800. Il fantasma fu visto sia dall’uomo che dalla donna e lo vide pure la loro figlia. Le apparizioni si protrassero a lungo ma solo dopo l’intervento di medium e le indagini di esperti del paranormale, si venne a scoprire che l’uomo, in realtà, era omosessuale e tra lui e sua moglie c’era un forte disagio. Arrivarono alla conclusione che fosse lui a creare, inconsciamente, lo spettro e che, in qualche modo, riuscisse a materializzare quella figura ogni volta che riposava. In poche parole la sua mente aveva generato “qualcosa” che tutta la famiglia percepiva come un fantasma.
Questa conclusione può sembrarci banale, ma raffrontata col fenomeno del poltergeist, diventa plausibile: i poltergeist sono ritenuti fenomeni di psicocinesi creati da adolescenti affetti da tempeste ormonali.
 
 
Vediamo ora un altro caso che, anche se diverso, sembra avvalorare ciò che ho appena scritto e non si tratta di una vaga ipotesi, ma di un vero e proprio esperimento.
Il caso è conosciuto come “Philip Experiment”. Fu organizzato a Toronto nel 1972 da un gruppo di studiosi della Società per la Ricerca Psichica (TSPR) capeggiati dal Dr. Alan Robert George Owen e dallo psicologo Joel Whitton. Volevano dimostrare l’ipotesi secondo cui il potere della mente fosse in grado di generare forze che, sebbene sconosciute, erano in grado di interagire con il mondo reale. Nel settembre il gruppo di Owen parve dimostrare che il poltergeist e ogni altra manifestazione spiritica sono il frutto del potere della mente.
Il gruppo inventò, di sana pianta, un personaggio storico. L’uomo, mai vissuto, ebbe il nome di Philip Aylesford. Crearono il suo background, curato nei minimi particolari e tutti si applicarono studiandolo per giorni e giorni. Nelle settimane che seguirono, ricostruirono i luoghi dov’era ambientata la storia e le abitudini quotidiane degli inglesi, nel 1600. Fu disegnato l’aspetto fisico di Philip e delineati i suoi sentimenti verso la moglie e verso quella che diventò la sua amante. Insomma, la storia di Philiph sembrava davvero reale.
In breve, Philip Aylesford era un aristocratico inglese vissuto nel 1600, che si era sposato con la figlia di un politico influente per ottenere il buon nome della famiglia e una cospicua dote. Sua moglie si chiamava Dorothea, ma tra i due non sbocciò mai l’amore e ben presto, l’uomo si distaccò da lei per occuparsi, con sempre maggiore attenzione, dei suoi possedimenti terrieri. Un giorno sulle “sue” terre si accampò una carovana di zingari; fu così che conobbe la bella Margò, di cui si innamorò quasi immediatamente. La loro fu una passione travolgente, Philip e Margò si incontravano di nascosto nella casa del custode del castello di Diddington Manor, dove lui viveva. Tuttavia, Dorothea scoprì l’adulterio e per vendicarsi accusò Margò di aver ammaliato suo marito avvalendosi della stregoneria. Margò finì sotto processo e Philip, temendo di perdere prestigio e reputazione, non scagionò la zingara che ritenuta colpevole finì sul rogo. Dopo la morte della sua amata, Philip fu colto da un terribile rimorso e alcuni giorni dopo, nel 1654, si gettò dalla torre più alta del castello.
Una storia triste, strappa lacrime, ma completamente falsa. Non solo, ma Owen, a insaputa degli altri, vi inserì anche degli errori grossolani, come il fatto che a Diddington Manor non esiste alcun castello!
Quando Owen fu convinto che tutti avevano “assorbito” la storia di Philip, iniziò una serie di sedute spiritiche nelle quali un medium, all’oscuro di tutto, cercava di evocarne lo spirito. Passarono invano diverse settimane poi, alla fine, il tavolino si mosse. Si sentirono dei colpi nella stanza e le persiane delle finestre si chiusero con fragore.
Stabilito il classico codice degli spiritisti: un colpo per il sì e due colpi per il no,  i partecipanti cominciarono a porre delle domande. Incredibilmente, l’entità reagì alle domande: rispose, a volte manifestandosi con rumori, altre volte con movimenti di oggetti, col tempo finì per aggredire gli stessi partecipanti.
Infatti, con l’andare del tempo, Philip assunse un carattere sempre più irascibile. Arrivò al punto che, in seguito di una domanda provocatoria su sua moglie Dorothea, il tavolo spinse di peso l’uomo che l’aveva posta fino a bloccarlo in un angolo, premendo così forte sul malcapitato che ci vollero tre persone per liberarlo.
Dopo molteplici sedute, a un certo punto, Philip smise di rispondere. Si decise così di interrompere l’esperimento.
A detta degli studiosi, il test dimostrò che i fenomeni paranormali a cui avevano assistito erano generati dal subconscio del gruppo, anche se non riuscirono a spiegare come questo subconscio potesse creare dei fenomeni fisici così reali e straordinari.
 
 


Il fantasma non si manifestò mai con apparizioni, né proferì mai parola. Si limitò a muovere tavoli o sbattere porte. I partecipanti affermarono che Philip era in grado di abbassare e spengere le luci della stanza su loro richiesta. È stata descritta anche una nebbia sottile che si formava sopra il tavolo in diverse occasioni e pare, che su richiesta hanno potuto indurre Philip a creare un colpo di vento freddo nella stanza. Per quanto riguarda il tavolo, quando Philip manifestava la sua presenza la superficie sembrava "viva" e percorsa da elettricità. Insomma, per gli astanti quell’entità era genuina, sebbene originata da un personaggio inventato. Le sedute erano spesso filmate. Esistono diverse riprese delle sedute dell'Esperimento Philip. Il figlio del dottor Owen, Robin E. Owen, spesso ha scattato foto e fatto le riprese delle sedute.
 


I risultati dell’esperimento, pubblicati su diversi giornali, fecero il giro del mondo. La Moglie di George Owen, Iris, che era il leader del gruppo coinvolto nell'Esperimento Philip, ha scritto un libro nel 1976 dal titolo "Conjuring Up Philip: An Adventure in Psychokinesis" (Evocando Philip: Un'avventura nella psicocinesi) in cui raccontava l'esperimento e i suoi risultati nel dettaglio. Una partecipante al gruppo, Sue Sparrow, è stata co-autrice del libro. Hollywood ne ha immortalato la storia con una trasposizione cinematografica (molto lontana dalla realtà): “Le Origini del Male”.


Questo significa che tutti i fantasmi sono generati dal nostro subconscio?
Non me la sento di generalizzare. Sì conoscono migliaia di casi e molte apparizioni (tutte a parer mio) hanno a che fare con un flusso d’acqua. Lo scorrere dell’acqua sarebbe in grado, in particolari circostanze, di “registrare” come su di un nastro magnetico un evento drammatico. Ad avvalorare questa mia ipotesi c’è il fatto che questi spettri ripropongano, ripetendola di continuo, la stessa situazione; potremmo persino parlare della stessa “scena” che si ripete all’infinito. È una scena a cui possiamo solo assistere, non ci è permesso di interagire, né interagisce il fantasma (stiamo parlando di fantasmi propriamente detti) che, molte volte, è stato visto passare attraverso i muri (ma anche attraverso gli spettatori) come se non esistessero affatto.

venerdì 16 agosto 2019

IL POPOLO DELLA NOTTE

 
Gli Appalachi sono una catena montuosa del nord America lungo la quale in passato sono nate numerosissime leggende riguardo a misteriose civiltà. Si tratta di vicende tramandate dagli indiani, ancor prima che Colombo giungesse in America.
Se ci concentriamo sugli Appalachi meridionali, dalla North Carolina in giù per la Georgia e fino all’Alabama, una delle leggende più persistenti riguarda i Moon-Eyed People, chiamati così per le loro abitudini notturne.
I primi a parlare di questo popolo furono i Cherokee, che li descrissero come uomini piccoli, alti poco più di un 1,40 m, con la pelle bianchissima e una lunga barba. Secondo loro, molti dei resti delle antiche strutture in pietra che oggi sorgono sulle creste della catena montuosa apparterrebbero ai Moon-Eyed People.
Gli indiani li chiamavano così perché non erano in grado di vedere alla luce del giorno: i loro occhi erano estremamente sensibili e non tolleravano la luce del sole. Per questo motivo erano un popolo rigorosamente notturno e vivevano, si dice, in caverne sotterranee da cui emergevano solo raramente per procurarsi ciò di cui avevano bisogno.
La struttura più famosa associata ai Moon-Eyed People è in Georgia, a Fort Mountain che deve il suo nome a un muro di pietra lungo circa 300 m che si estende lungo tutta la cima della montagna. Dagli studi effettuati pare che sia stato costruito intorno al 1400 d.C. e secondo i Cherokee, è ciò che rimane di una fortificazione che i Moon-Eyed eressero durante una guerra contro gli indiani Creek.
I feroci scontri portarono i Creek alla vittoria e il popolo che viveva solo di notte fu costretto a migrare per rifugiarsi sotto le montagne della Carolina del Nord, dove pian piano si adattò a vivere in grotte sempre più profonde.
 

Ma, quella che per noi è solo una leggenda, potrebbe essere una storia vera?
I Cherokee avevano un culto e delle credenze piuttosto complessi: loro credevano in un mondo in cui gli esseri umani condividevano il territorio con altri popoli, alcuni persino soprannaturali. Le razze come Nunnehi e Yunwi Tsudi sono un esempio di creature sovrannaturali: erano convinti che abitassero nel sottosuolo e tra le nuvole. Tuttavia, nei reperti giunti fino a noi, i Moon-Eyed People non sono mai stati descritti come esseri soprannaturali, ma come esseri umani, anche se molto diversi, fisicamente, dai nativi americani.
Oggi gli studi dei tumuli e dei resti di questa misteriosa civiltà proseguono a rilento, sia per il fatto che i governi non sono inclini a sovvenzionare tali ricerche, sia per la problematica di raggiungere i siti archeologici. Quello che è certo è che qualcuno sia effettivamente vissuto sulle cime degli Appalachi tra il X e il XV secolo, ma ancora non è chiaro chi fosse e che fine abbia fatto.

FRAMMENTI

Adesso sembrava sorpresa: un tempo, non gli avrebbe prestato più attenzione di quanta ne prestasse a un gatto randagio. Ma lui l’aveva notata e l’aveva amata in segreto fin dal primo momento. Com’era stato paziente! Era rimasto in disparte mente uomini ricchi e famosi venivano a farle la corte e se ne andavano delusi, offesi o irritati. Intelligente com’era, lui aveva compreso che non si sarebbe lasciata conquistare da un semplice corteggiamento, perciò l’aveva avvicinata come un amico anziché come un innamorato. Aveva trovato il modo di attirare la sua attenzione e di narrargli la sua storia; l’aveva indotta ad amarlo a sua insaputa. Ricordava il primo incontro. Il primo bacio, rispettoso e gentile. Con rimpianto, ricordava la freddezza che l’aveva dominata dopo quell’episodio: aveva avuto tanta paura che si era distaccata, convincendosi di non provare nulla per lui. L’aveva fatto soffrire profondamente. A volte, gli pareva perfino di sentirlo, mentre le diceva: sì, ti conosco, sai essere fredda, sai farmi soffrire e devo stare in guardia.

mercoledì 14 agosto 2019

LA STORIA CONFERMATA DI JAMES LEININGER


James Leininger nacque nel 1998. All’età di circa 4 anni incominciò ad avere incubi, che terrorizzavano i suoi genitori, in quanto il piccolo piangeva e urlava ininterrottamente. Spesso capitava di trovarlo di pancia sul suo lettino scalciare e ad agitare le braccia.
Una notte il bambino gridò:
“Guasto tecnico! L’aereo cade! C’è fuoco ovunque!” 
In effetti James nutriva una passione per gli aeroplani da quando suo padre lo aveva portato al museo dell’aviazione, da quel giorno il bambino aveva cominciato a collezionare dei modellini in scala. Quando si avvicinava al suo aeromobile giocattolo, aveva la curiosa abitudine di eseguire un giro di controllo tutto intorno, prima di salirci, proprio come un vero pilota.
Inoltre James sembrava conoscere molto bene gli aeroplani, infatti quando sua madre gli regalò un aeroplanino e gli fece notare una bomba sul lato inferiore, il bambino subito la corresse dicendole che non si trattava di una bomba, bensì di serbatoio a goccia.
Intanto gli incubi del piccolo James continuavano, cosi i Leininger decisero di portarlo da un terapista specializzato in paure infantili. Il bambino venne sottoposto ad alcune sedute ipnotiche e durante queste sessioni raccontò una storia. Disse di aver pilotato un F4U Corsair, di essere stato assegnato a una portaerei di nome “Natoma” insieme a un uomo di nome Jack Larson e di essere stato ucciso durante gli eventi di Iwo Jima.
Per i genitori fu un vero e proprio colpo. Così decisero di fare delle ricerche. Scoprirono il Corsair era davvero il tipo di velivolo utilizzato nel Pacifico, trovarono nei registri storici la storia di una piccola portaerei, di nome Natoma Bay, che era nella battaglia di Iwo Jima ed, effettivamente, c’era anche un pilota di nome Jack Larson che aveva servito a quel tempo, nella baia di Natoma.
 
 
Dopo gli incontri con il terapeuta James iniziò a disegnare il suo aereo mentre precipitava e questo sembrò esorcizzare i suoi incubi.
Un giorno, mentre il padre, Bruce, sfogliava un libro Sulla battaglia di Iwo Jima, James indicò l’isola di Chichi Jima sulla cartina, dicendogli che è lì che il suo aereo è stato colpito abbattuto.
Bruce contattò la Natoma Bay Association, che confermò che Jack Lars era stato uno dei piloti, che solo un pilota era stato abbattuto a Chichi Jima: si trattava del 21enne James M. Huston Jr.
Uno dei fattori più inquietanti di questa storia, sono tre bambole della linea GI jo, chiamate Leon, Walter e Billie, James disse di averle chiamate con il nome dei suoi amici perché gli proferirono il saluto quando “andò in paradiso”. Dagli archivi militari arrivò la conferma che tre piloti, amici di James M. Huston, della Natoma Bay erano Leon S. Conner, Ensign Walter J. Devlin e Ensign Billie R.
I Leininger contattarono Larson, ormai novantenne e, in effetti, l’uomo si ricordò di un pilota di nome James M. Huston, l’unico rimasto ucciso su quel fronte. Si misero poi in contatto con Anne Barron, sorella di Huston e la donna, dopo aver interrogato a lungo il bambino si convinse che il piccolo James fosse davvero la reincarnazione del fratello. 

“Forse è tornato perché deve terminare qualcosa” 
 

Dichiarò Anne.

martedì 13 agosto 2019

CLAIRE

Dopo diverse settimane fu costretto ad ammettere che qualcosa non andava. Era sconcertato. Desiderava capire se lei si comportava in modo normale o strano, se si trattava di un comportamento temporaneo o permanente, se doveva far finta di niente oppure affrontarla. Poichè era incerto, temeva di dirle qualcosa di sbagliato e di peggiorare le cose, così non disse nulla. Pensava che fosse stato sciocco pensare che la donna più desiderabile del mondo potesse innamorarsi di uno come lui. Per un po' l'aveva divertita con le sue storie, ma dopo il primo inconto galante, lei era sparita.

JERICHO

Ci sono persone toccate dai sensi più acuti e nascosti. Sfiorati dalla dimensione fonda del mondo, questi uomini ne rimangono irrimediabilmente pervasi, percependo il di dietro e il di dentro delle cose, vedendo più in alto e vedendo sotto, vedendo dove non si dovrebbe e sentendo tutto. Capiscono meglio di tutti e per questo gli altri li bollano come matti. Li liquidano in quel modo così frettoloso perchè temono la conoscenza e il cammino inquieto che essa impone. Grazie a loro, gli stupidi scorgono l'inizio della conoscenza e subito si ritraggono impauriti.

domenica 11 agosto 2019

I MISTERIOSI RESTI DI TECOLUTLA


Tecolutla è una località messicana che, nel 1969, diventò famosa in seguito al ritrovamento della carcassa di un animale marino sconosciuto che si arenò sulla spiaggia di “La Vigueta”.
Era la mattina del 14 marzo 1969 e alcuni pescatori avvistarono un animale di grossa taglia, ormai morto, galleggiare a poca distanza dalla riva. Venne descritto come somigliante a ‘una barca capovolta’. I pescatori invece di avvisare le autorità, attesero pazientemente il ritiro della marea per tentare il recupero dell’animale. Sebbene morto, lo strano animale era comunque una preda molto ghiotta e attirati dalla possibilità di un lauto guadagno, iniziarono a dissezionarlo.
Quando gli scienziati lo poterono esaminare, era già stato irrimediabilmente mutilato in più punti e questo rese impossibile il suo riconoscimento. Dell’animale non restava altro che la testa, di cui è disponibile anche una celebre foto. L’equipe di ricercatori non poté far altro che constatare l’elevato stato di decomposizione della carcassa cosi, il 16 marzo, la caricano, con una gru, su un automezzo e la portarono di fronte al molo per studiarla prima che andasse perduta del tutto.
Secondo quanto riportato dai documenti ufficiali, la carcassa pesava più di una tonnellata, era ricoperta da una spessa corazza e munita di un corno lungo tre metri. Dalla ricostruzione ipotetica dello scheletro il peso dell’animale da vivo venne stimano in 35 tonnellate e sebbene fosse identificato inizialmente come un cetaceo, alcuni particolari fecero ricredere gli studiosi.
I resti dell’animale erano di colore nero, caratterizzati da striature bianche. Un particolare decisamente insolito era che dalla sua bocca fuoriuscivano alcuni denti di quasi 4 cm di lunghezza, cosa davvero insolita per un cetaceo. Secondo gli esperti, questi elementi non riscontrabili tutti insieme in alcuna specie conosciuta, non classificherebbero l’animale in nessuna famiglia. Alcuni attribuirono quei tratti particolari alla decomposizione e conclusero che si trattasse della carcassa di una balenottera o di un capodoglio, ma molti altri studiosi non erano affatto d’accordo e presero le distanze da quella sbrigativa valutazione.
Si avanzò l’ipotesi che si trattasse di uno zifide, un cetaceo che, ancora oggi, è quasi del tutto sconosciuto. Dotato di un corpo simile a quello di una balena ma di una testa più simile a quella dei delfini, con denti. Degli zifidi si sa poco o nulla perché vivono lontanissimi dalla costa, in profondità spesso inaccessibili ed è stato possibile accertarne l’esistenza solamente grazie a carcasse arenatesi a riva.


 

Il ritrovamento divenne motivo di attrazione di moltissimi curiosi. Il 18 marzo, dopo due giorni di esposizione al pubblico, il tanfo divenne insopportabile. Tuttavia, il sindaco di Tecolutla ignorò la richiesta, espressa dalla cittadinanza, di sotterrarlo e volle mantenerlo ancora in vista come “attrazione turistica” per altri 10 giorni.
Oggi della creatura rimane solamente il cranio, esposto al museo di biologia Marina di Tecolutla. Rimane purtroppo anche un grande mistero per la criptozoologia, sul quale l’avidità dell’uomo ha reso impossibile far luce.

sabato 10 agosto 2019

DOMANDE

Nei giorni immediatamente successivi alla sua partenza, lui non era riuscito a dormire per via di tutte quelle domande, ma con il trascorrere del tempo aveva capito che non avrebbe mai potuto fargliele e le domande si erano disperse.

mercoledì 7 agosto 2019

COME UN TEMPORALE ESTIVO



Era preoccupato. Era torturato da sentimenti contrastanti. Aveva appena terminato una telefonata e lei le era sembrata scostante e distratta. Era lontana, non solo fisicamente ma anche con la mente, con lo spirito. Da poche parole aveva capito che il loro rapporto si era concluso per sempre. Senza un addio, senza una lite, senza un confronto. Il loro rapporto era finito e basta, come un temporale estivo, che inizia e finisce all’improvviso.

UN'OMBRA NEL BUIO DELLA NOTTE


L’aereo rullava lento, avviandosi verso il bordo pista. Le sue luci di posizione lampeggiavano ritmicamente all’estremità dei profili alari. Il motore urlava, nonostante il caccia si muovesse lento per trovare la posizione corretta  per il decollo. All’improvviso si udì il rombo del motore, che aveva aumentato il numero dei giri, una fiamma rossa e viva si sprigionò dai due ugelli posteriori del caccia.  I freni mollarono la presa sulle ruote del carrello e l’aereo  compì un rabbioso scatto in avanti, aggredì l’asfalto facendo tremare l’aria per la potenza della spinta che lo induceva a prendere abbrivio. Prima che la pista finisse, il carrello si staccò dal suolo, per poi rinchiudersi nel ventre dell’aereo. In pochi istanti, il caccia divenne un ombra nascosta nel buio della notte.

 



Aveva visto il suo aereo innalzarsi verso il cielo. Chiuse gli occhi e si costrinse a pensare al suo “Jery”. Lui, in quel momento, non poteva certo pensare a lei. Doveva pilotare il caccia, controllare che tutto andasse bene. Però lei sperava che in un angolo remoto della coscienza del suo uomo rimanesse impressa la sua immagine. Non poteva neppure immaginare quanto poco tempo per pensare potesse avere un pilota in missione. Ma lei era lì, a vederlo mentre andava veloce verso il cielo cupo e aveva paura.
Lei lo guardava e lo pensava.
Era assieme a lui e volava con lui. L’amava, glielo aveva confessato quella mattina, dopo il risveglio più dolce della sua vita. E lui amava lei, come avevano detto proprio quelle labbra che aveva baciato e che desiderava ancora baciare.
Intanto, l’aereo volava via. Lo portava lontano da lei fisicamente, ma per quanto fosse potente e veloce, mai avrebbe potuto allontanarlo dal suo cuore.

MISSING


Josephine Yurno era un’arzilla signora, non più tanto giovane, che viveva nei sobborghi di Norwich, nel Connecticut. Era una signora cordiale, ma anche solitaria e senza svaghi particolari, se non le sue passeggiate quotidiane che, di solito, avvenivano  di sera, al tramonto. Per prudenza, non si allontanava mai dal quartiere. Oltre che prudente, era anche un po’ superstiziosa: tutti nella zona erano a conoscenza della sua abitudine di uscire sempre con l’ombrello, anche quando non pioveva.
Il 12 novembre 1935 i vicini la videro uscire e i passanti la incrociarono lungo i marciapiedi della via. Non fecero neanche tanto caso a quella persona intenta nella sua routine quotidiana. Ma la donna, quel giorno, non tornò a casa. Gli amici e i vicini erano in apprensione; il giorno dopo, avvertirono la polizia della sua scomparsa e iniziarono le ricerche. Agli agenti si unì un folto gruppo di volontari e di amici che però non riuscirono a trovarla né trovarono alcun indizio che spiegasse la sua misteriosa scomparsa.
Il caso venne chiuso e la polizia ipotizzò che la donna fosse partita per un lungo viaggio o che fosse caduta preda di qualche malvivente. In ogni caso la polizia aveva speso tempo e risorse senza ottenere risultati.
 
Nel settembre del 1938, tre anni più tardi, la signora Yurno venne avvistata da un vicino, mentre tornava a casa come se nulla fosse. Quando gli amici si precipitarono in casa dell’anziana, la trovarono in buona salute. La cosa che li lasciò perplessi fu che aveva la stessa acconciatura, gli stessi vestiti e lo stesso ombrello di quella sera, quando  la videro per l’ultima volta.
Quando le chiesero dove fosse stata la signora Yurno sgranò gli occhi, non capendo la domanda. Secondo lei era ancora il 12 novembre 1935: aveva semplicemente fatto una passeggiata e si era assentata per non più di un’oretta, come al solito. Poi però si accorse che alcune cose erano cambiate: la gente, gli alberi, persino la sua casa era invecchiata. Tutti e tutto attorno a lei sembrava più vecchio o più grande di quando era uscita per la sua passeggiata.
I parenti e i vicini la convinsero a consultare un medico, che la invitò a farsi ricoverare ma, contro il parere di tutti, la donna rifiutò le cure mediche e tornò alla sua vita di sempre. Riprese la sua vita come se nulla fosse accaduto, comprese le passeggiate serali con il suo amato ombrello. Un vicino, forse per stare tranquillo, le scattò una foto. Quella sera, mentre si allontanava di casa, era strana: non salutò nessuno e pareva fissare il vuoto con gli occhi sbarrati. Passarono i mesi e le persone dimenticarono l’accaduto, raccontando la storia quasi come una barzelletta. Ma nel 1940, cinque anni dopo la sua scomparsa e di nuovo nel mese di novembre, la signora Yurno sparì di nuovo. Questa volta, però, non fu mai più rivista e come la prima volta, non lasciò alcuna traccia di se.

lunedì 5 agosto 2019

LA GRANDE CACCIA


Prima di iniziare la caccia i Capi scelero i cacciatori più bravi e veloci a cui affidarono il compito di attaccare per primi la mandria. Il loro bottino era destinato a tutti coloro che non erano in grado di provvedere a se stessi: le vedove, le donne non maritate i vecchi, i bambini e i malati. Insomma, tutte quelle persone che, per un motivo o un altro, non partecipavano alla caccia. Quella era la prima fase e solo dopo, quando i guerrieri avevano ucciso i primi animali per la comunità, la caccia diventava un affare individuale. Ciascuno sceglieva i suoi bersagli e cercava di abbatterli come meglio poteva, per suo conto e nel numero che riteneva necessario.
Quando gli indiani scorsero, in lontananza, la mandria di bisonti si tenne un conciliabolo sul modo di condurre l’attacco. Trovato l’accordo sull’azione di accerchiamento, i cavalieri, armati di arco, frecce e lancia montarono i loro cavalli appositamente addestrati alla caccia del bisonte e si divisero in due colonne prendendo opposte direzioni. Piano piano si disposero attorno alla mandria, a una distanza di circa due chilometri, formando un cerchio di indiani a cavallo equidistanti fra loro. I cacciatori si tennero sempre sottovento per evitare che l’odore dei cavalli e dell’uomo mettesse in allarme i tori adulti che coprivano i fianchi della mandria per proteggere le femmine e i vitellini che stavano al centro. Poi a un segnale convenuto, lentamente, i cavalieri strinsero verso il centro. Gli animali, che prima non avevano nessun sospetto, ora sentivano nel vento l’approssimarsi del nemico e si diedero alla fuga in una confusione enorme. Intanto gli indiani avevano stretto i ranghi in tutte le direzioni e formato una linea interrotta intorno alla mandria di bisonti che, terrorizzati, giravano in tondo scalciandosi e urtandosi a vicenda.
A questo punto iniziò la mattanza. I cavalieri scagliarono lance e frecce per trafiggere al cuore gli animali. I bisonti feriti spesso si lanciavano con furia contro i cavalli ferendoli mortalmente e costringendo i malcapitati cavalieri a una rapida fuga a piedi. Si salvavano solo grazie alla forza delle loro gambe. Qualche volta, il cacciatore, pressato da vicino da un bisonte inferocito, si toglieva il corto gonnellino e lo gettava sugli occhi dell’animale, cercando scampo nella prateria. Cacciare il bisonte non era facile. Era un’impresa che richiedeva un’abilità straordinaria e un coraggio enorme. Armati di sole frecce e lance, i cacciatori dovevano avvicinarsi a pochi metri da quei colossi muscolosi, lanciati al galoppo, per colpirli e abbatterli.

 

 

 

Dovevano colpire il bisonte sopra la spalla sinistra, per dar modo allo strale di raggiungere il cuore. Questo era il punto più vulnerabile. E' inutile colpirli alla testa perché hanno un doppio cranio e le frecce rimbalzano innocue su quei testoni corazzati. Neppure colpirli ai fianchi era garanzia di successo, perché se l’angolo d’impatto della freccia non era perpendicolare, la punta schizzava via sulla robusta pelle. Perciò i cacciatori dovevano accostarsi ai bisonti, mettersi al passo con loro, avanzando a zig zag per evitare di essere travolti dalla mandria in corsa e poi portarsi al centro della stessa per colpire le giovenche e i vitelli. Il momento più pericoloso della caccia era quando la bestia crollava a terra colpita a morte. A quel punto il resto della mandria, scartava bruscamente per evitare la vittima e continuando la corsa, nel panico, minacciava di travolgere cavallo e cavaliere. Per questa ragione i cavalli per la caccia erano addestrati ad allontanarsi subito dal bisonte abbattuto. Quando andavano a caccia gli indiani erano solito portare anche una lunga corda, che veniva lasciata pendere dietro le zampe del cavallo. Rincorrendo i bisonti poteva capitare di essere disarcionati e allora se si riusciva ad afferrare il lazo si poteva tentare di fermare il cavallo e rimontare in sella. Si evitava in tal modo di essere travolti e fatti a pezzi dagli zoccoli della mandria impazzita, che poteva correre ad oltre 50 chilometri l’ora.
Di solito gli indiani si procuravano la carne per la scorta invernale cacciando in autunno, quando gli animali erano più grassi. Si sceglievano le giovenche e i giovani vitelli evitando i grossi e vecchi tori la cui carne risultava immangiabile perché dura, stopposa e olezzante. Però si cacciava anche in inverno sia per avere carne fresca sia perché la pelliccia aveva maggior valore essendo il pelo più lungo e abbondante. Ma cacciare nella neve voleva dire fare a meno del cavallo. Gli indiani andavano a piedi servendosi di racchette da neve. Nascosti sotto una pelliccia di lupo bianco, si avvicinavano alla mandria quel tanto che bastava per colpire la preda con le frecce o con la lancia. Altre volte gli indiani aspettavano, nei loro villaggi invernali, riparati nelle valli, l’arrivo dei bisonti che si spostavano alla ricerca di pascoli non ancora ricoperti dalla neve. Quando veniva segnalata l’apparizione di queste mandrie occorreva che nel villaggio regnasse il silenzio più assoluto. Gli akicita badavano affinché tutti si richiudessero nelle tende, compresi i loro cani. Non si doveva tagliare la legna e si dovevano spegnere i fuochi. E se qualche bisonte si avventurava nel villaggio e sfiorava le tende, gli indiani, seppur affamati, non potevano abbatterlo, per paura di spaventare il grosso della mandria.

 

 

Uccise le bestie necessarie si lasciavano in pace tutte le altre. Solo allora i cacciatori si muovevano verso gli animali uccisi cercando di riconoscere le proprie frecce sui capi abbattuti per aggiudicarsene la proprietà. Anche le donne allora correvano eccitate da una carcassa all’altra cercando la bestia abbattuta dal loro uomo e riconoscibile dalle frecce ornate con le piume e i colori del clan. Ogni cacciatore aveva le proprie insegne dipinte sulle armi, per riconoscere quale bisonte ucciso gli appartenesse, spesso, si dovevano sedare liti e dirimere controversie quando frecce di diversi colori, dunque di diversi cacciatori, stavano conficcate in una stessa carcassa. Gli akicita valutavano con occhio esperto le frecce, esaminavano la bestia per veder quale freccia avesse inferto il colpo mortale e stabilivano a chi spettasse il bisonte o in quante parti andasse diviso. Terminata la caccia, le donne procedevano immediatamente alla macellazione e al trasporto della carne prima del tramonto del sole e prima dell’arrivo dei predatori della prateria. Intanto gli uomini si interessavano del recupero delle armi e alla cure delle ferite, proprie o dei cavalli. Per chiudere la giornata i capi e gli sciamani sceglievano l’animale più grosso e l’offrivano al Grande Spirito in segno di riconoscimento per quel cibo e di rammarico per quella morte. Poi, piantate le tende, seguiva la festa serale e la scorpacciata di carne di bisonte. Si formava un circolo attorno al fuoco centrale del villaggio, si pregava e si chiedeva perdono al Fratello Bisonte per avere sparso il suo sangue. Il massacro era stato necessario per assicurare la sopravvivenza della tribù. Tutti si impegnavano, per il futuro, a non uccidere più animali di quanti ne fossero necessari. La carcassa, dopo il rituale, restava all’aperto per molti giorni, prima di essere bruciata e le ceneri venivano sparse al vento della prateria perché, come semi, potessero assicurare la rinascita di molti altri bisonti.