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lunedì 18 ottobre 2021

L’INCONTRO RAVVICINATO CON UN DISCENDENTE DI ANTICHI ASTRONAUTI DI A. COE


Nel giugno 1920 Coe, in vacanza con la sua famiglia, partì da solo per esplorare il territorio montano, lungo le rive del fiume Mattawa, in Ontario. Dopo aver camminato lungo il fiume, si sarebbe riunito alla sua famiglia per proseguire in canoa. Mentre era da solo sulla riva del fiume, sentì una voce che chiedeva aiuto. Si guardò intorno ma non vide nessuno. Tuttavia, attirato dalle grida, camminò per alcuni metri fino a intravedere una fenditura nella roccia. Lì c’era un uomo biondo intrappolato in fondo alla spaccatura. Era gravemente ferito e con un solo braccio libero, non riusciva a venirne fuori.
Coe, con l’uso delle corde, riuscì a tirarlo su dall’anfratto. Notò che si era ferito a una gamba e non poteva camminare. L’uomo gli chiese dell'acqua e Coe usò il suo cappello per raccoglierne dal fiume. Lo straniero bevve, mentre lui gli fasciava la ferita con il suo fazzoletto. Fu così che notò qualcosa di strano: indossava uno strano indumento grigio argento, attillato, tipo maglione, che aveva appena sotto il petto un piccolo pannello degli strumenti. Incuriosito dallo strano abbigliamento chiese, molto educatamente, chi fosse e cosa ci facesse lì. L'uomo rispose che era lì per pescare: ci era arrivato in aereo e che il velivolo era parcheggiato nelle vicinanze. Coe, infatti, notò una canna e degli attrezzi da pesca nelle immediate vicinanze. Lo sconosciuto, alzandosi in piedi, lo ringraziò per l’aiuto e disse che era arrivato il momento di partire. Albert insistette per accompagnarlo al suo aereo, ma lo sconosciuto apparve a disagio e rifiutò la sua offerta. Purtroppo, ben presto si rese conto che non era ancora in grado di camminare senza alcun aiuto. Quindi Coe rinnovò la sua offerta e lo sconosciuto si vide costretto ad accettare, ma lo fece a una condizione: gli fece promettere che non avrebbe mai rivelato nulla, a nessuno, del loro incontro e di ciò che avrebbe in seguito visto.
Coe promise e lo sconosciuto lo condusse al suo aereo. Gli disse che era stato costruito da suo padre. Era un disco rotondo, color argento, di circa sei metri di diametro, che poggiava su tre gambe. Non c’era elica, né ali e neanche una fusoliera. La “navetta” non aveva finestre e Coe si chiese come facesse a vedere all'esterno per poter governare il velivolo e per navigare. Lo sconosciuto gli disse che la navicella era un prototipo in fase sperimentale e il progetto era ancora coperto dal segreto. Gli era permesso di usarla, ma solo occasionalmente.
La parte inferiore della navicella, che si trovava a non più di quattro piedi da terra, era divisa in tre scomparti, che furono notati non appena lo sconosciuto premette un pulsante e fece calare una corta scaletta. Coe lo aiutò a salire sulla scala e quando gli fu chiesto, lo spinse letteralmente dentro.
Lo sconosciuto lo ringraziò per l’aiuto e promise che si sarebbero incontrati ancora, in futuro. Quindi gli chiese di allontanarsi poiché era pronto al decollo.
Il velivolo cominciò a emettere un suono basso che diventava via via più acuto, fino a superare le capacità uditive di un orecchio umano. Da quel momento Coe iniziò a percepirlo come una sensazione pulsante piuttosto che uditiva: avvertiva come una sorta di compressione. La navetta si sollevò di qualche metro, leggera come una piuma. Quindi si fermò a mezz’aria e ripiegato il carrello in appositi alloggiamenti, si alzò rapidamente senza sforzo apparente, quasi fosse il fiore di un cardo selvatico catturato da una corrente ascensionale. Poi, accelerando in modo repentino, scomparve.
Coe rimase confuso: era ormai certo di aver assistito a qualcosa di veramente insolito.





Sei mesi dopo, ebbe modo di nuovo modo di incontrare l'uomo misterioso. Ricevette una missiva con la quale un certo Zretsim chiedeva incontrarlo al McAlpine Hotel di Ottawa. Si chiese se non fosse lo stesso uomo che aveva incontrato sulla riva del fiume: e infatti, era lui. Quando si strinsero la mano, Coe provò una strana sensazione che gli fu trasmessa da un piccolo dispositivo che lo sconosciuto portava con se. In seguito spiegò al Dr. Berthold Schwarz che il dispositivo registrava la frequenza con cui vibrava il suo corpo, i cui dati venivano mostrati, altrove, su uno schermo simile a un televisore. Era convinto che lo monitorassero per controllare ogni sua mossa e assicurarsi che mantenesse la promessa.
Durante questo secondo incontro, gli fu rivelato che l'uomo si chiamava Zret. Albert era ansioso: desiderava porgli numerose domande, ma Zret rimandò tutto a un incontro successivo che sarebbe potuto avvenire solo dopo diversi mesi. Si incontrarono di nuovo a maggio dell’anno successivo e poi s’incontrarono ancora, per i successivi cinque decenni. Nel corso quegli incontri, Zret fece consistenti rivelazioni. Disse di appartenere a un piccolo gruppo di extraterrestri venuti per osservare i progressi scientifici degli umani. Sulla Terra, lavorava come ingegnere elettronico. La storia del suo popolo è antica, risale a migliaia di anni or sono. Ma questa particolare “missione” iniziò nel 1904 quando un centinaio di persone come lui si infiltrarono in tutte le principali nazioni del pianeta, in piccoli gruppi, per osservare e valutare i progressi dell'umanità.
“Nello standard del tempo terrestre – disse - ho esattamente trecentoquattro anni più di te, ma non li dimostro. È un requisito fondamentale: per stabilire la nostra identità come terrestri, è necessario essere accettati e sembrare come voi.
Zret gli raccontò che quando cadde nel crepaccio, il pannello sul suo petto si guastò e non fu più in grado di inviare un segnale di soccorso. In ulteriori incontri, Coe apprese altri dettagli sulla civiltà di Zret. Gli fu detto che provenivano da un pianeta chiamato Norca che orbitava intorno a Tau Ceti, situato a una distanza di 12 anni luce dal sistema solare. Il pianeta divenne inabitabile circa 14.000 anni fa, quindi iniziarono a esplorare lo Spazio alla ricerca di altri pianeti abitabili e fortunatamente, li trovarono nel sistema solare. Durante la loro visita, si incontrarono con gli umani Cro-Magnon (i primi esseri umani), ma stabilirono anche delle basi su Venere (?) e Marte.
Evacuarono dal loro pianeta usando sessantadue enormi astronavi da trasporto che potevano trasferire migliaia di Norcan nella loro nuova dimora. Il viaggio fu un disastro: persero diverse navi, morirono in migliaia e alla fine, furono costretti a un atterraggio di fortuna su Marte. Nonostante le dure condizioni imposte dall’ambiente marziano, riuscirono a sopravvivere per migliaia di anni. Intanto, inviarono due navi alla ricerca di un posto migliore. Una era diretta su Venere e l'altra puntò sulla Terra dove, effettivamente, sbarcarono la maggior parte di loro. Sulla Terra - ci racconta – tutti gli umani avevano tutti i capelli scuri e gli occhi scuri. La mutazione si verificò quando i Norcan iniziarono a incrociarli e così apparvero individui dagli occhi blu o verdi, biondi e di carnagione chiara. (Tutto questo non ci ricorda i racconti sumeri che definivano se stessi come “gli uomini dai capelli scuri” in netta contrapposizione con gli Dei biondi venuti dal cielo? N.d.r.)
Zret affermò che avevano anche una base su Venere e che continuavano a condurre regolarmente esperimenti su Marte che, a causa della sua atmosfera sottile, era un laboratorio ideale.





Coe non rivelò i suoi incontri con Zret fino alla fine degli anni '50, quando lo disse a sua moglie. Lei, all'inizio, stentava a crederci.
In effetti, non c'è alcuna prova che possa avvalorare la storia di Albert Coe. Di certo, da quei resoconti non ha mai ottenuto alcun tornaconto. Il suo libro, auto pubblicato (nessun editore volle mai pubblicarlo) racconta le sue esperienze. Il suo contenuto è ancora fonte di studio per i ricercatori UFO.
Tra l’altro, Il suo caso fu menzionato anche dal ricercatore Timothy Good che lo pubblicò nel suo libro intitolato "Alien Base – The Evidence For Extra-Terrestrial Colonization Of Earth", pubblicato nel 1998. La sua storia supporta la teoria degli antichi astronauti.

domenica 10 ottobre 2021

LE STRABILIANTI RIVELAZIONI DI PADRE CORONERO



Durante i lavori di restauro della chiesetta del Comune di S. Giorgio (BN), fu rimosso l’altare maggiore, ormai in evidente stato di degrado. Venne così alla luce una piccola nicchia nascosta contenente un cofanetto di legno. All’interno vi trovarono un diario un po’ ammuffito, ma ancora perfettamente leggibile. Il parroco, Don Raffaele, che insieme a due operai fu testimone del ritrovamento, riconobbe, nel manoscritto, la stesura del suo predecessore. Dopo aver letto il diario, si è deciso a consegnarlo a un nipote di Don Pietro Coronero, ritenendo che il manoscritto fosse di proprietà del suo parente più prossimo. Sia chiaro che il suo contenuto non è stato ancora divulgato a mezzo stampa (forse per non contrariare Don Raffaele) ho ottenuto il permesso di diffonderlo, solo per motivi di studio, sui gruppi ufologici e quindi rappresenta una sorta di anteprima in senso assoluto. Per tale motivo, in corsivo virgolettato, vengono riportate le impressioni di padre Coronero esattamente come sono riportate nel diario.


La prima pagina è datata il 15 marzo del 1960. È tarda sera, Don Pietro Coronero è rinchiuso in camera intento alla lettura di un libro. Siamo negli anni ’60 in un piccolo centro agricolo. A quell’ora tutti sono già rientrati in casa: il prete rimane l’unico testimone di questa vicenda. Dalla sua finestra, notò un oggetto discoidale discendere “leggero come un palloncino”, senza produrre alcun rumore, per poi posarsi proprio sul tetto della chiesa. Stimò che avesse le “dimensioni di un automobile”: era grande, lucido, compatto: “somigliava a una grande lenticchia metallica.”
L’oggetto, per alcuni secondi, emise un lieve ronzio e fu proprio quel rumore ad attirare l’attenzione del prete. All’udire quel suono si affacciò sul davanzale ove poté scorgere l’oggetto circondato da una debole luce azzurrina. Poi si spense anche quella. L’apertura di uno sportello provocò, in lui, un senso di apprensione, mitigato dal fatto che, appesa al muro, a portata di mano, c’era la sua doppietta.
Dal disco uscirono due “esserini esili”, alti poco più di 1,10 m. A una testa e un torace molto ampi corrispondevano membra estremamente piccole, addirittura striminzite. I “capelli” erano come paglia tanto erano spessi e irti sulla testa. Parlottarono, tra loro a bassa voce: il loro dialogo somigliava a un cigolio. Si arrampicarono sul tetto, che ha una modesta pendenza e raggiunsero la croce in cima alla facciata. Ci girarono intorno, la toccarono: sembrava facessero dei rilievi. Fu a questo punto che Don Pietro richiamò la loro attenzione gridando: “Ehi! Giù di lì. Chi siete?” I due si avvicinarono con un’andatura saltellante che al prete ricordava quella dei passeri. Poi il più alto dei due cominciò a parlargli. Si espresse nella loro lingua ma, ora, stranamente, il parroco comprendeva ogni parola (telepatia?).


“Ce ne andremo subito. È da molto tempo che vi osserviamo: di voi sappiamo quasi tutto. Se parli, io ti capirò. Solo una cosa non abbiamo mai decifrato ed è proprio per questo che siamo scesi: a cosa servono quelle antenne? – Indicò la croce – Ne avete dappertutto: in cima alla torri dei campanili, in vetta alle montagne, chiuse dentro le case e alcuni le portano persino appese al collo. A cosa servono?”
Don Pietro spiegò ai “marziani” (a quel tempo si pensava che provenissero da Marte n.d.r.) che erano croci e aggiunse: “servono alle nostre anime. Sono il simbolo di nostro Signore Gesù, il Cristo, il figlio di Dio che è morto in croce per noi.”
Queste parole sembrarono suscitare nei marziani un certo interesse, tanto che ne vollero sapere di più.
Sono convinto che nel cuore di Don Pietro balenò l’idea o forse la speranza di poter convertire gli abitanti di un altro pianeta. Sarebbe stato un evento di portata storica e lui ne avrebbe avuto gloria eterna. Fatto sta, che, con la promessa di raccontargli tutto, invitò i due a entrare. Gli disse di accomodarsi pure sul letto, ma quelli parvero non capire. Alle sue insistenze, saltarono sul materasso e vi rimasero in piedi, saltellando leggermente sulle molle, dando così l’impressione che fossero incapaci di stare seduti. Il prete presa una Bibbia cominciò a raccontare. Arrivati al punto in cui Dio, avendo posto l’uomo nel giardino dell’Eden, gli proibì di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, fu interrotto.
“L’avete mangiato, vero? Non avete saputo resistere. È andata veramente così?”
Il prete ammise che ne mangiarono, ma aggiunse: “avrei voluto vedere voi! Se fosse cresciuto sul vostro pianeta un albero simile.”
“Certo - ammise l’alieno – è cresciuto. Fu piantato milioni e milioni di anni fa e adesso è ancora verde.
“E voi i frutti non li avete mai, dico mai, assaggiati?”
“Mai! – rispose il marziano – una legge divina lo proibisce!”
Il diario riporta le conclusioni di Don Pietro: “quei due esseri erano puri come angeli, non conoscevano il peccato, non sapevano cos’era la cattiveria, l’odio, la menzogna.”
“Sì, per quel frutto ci siamo rovinati – rispose – ma il Figlio di Dio si fece uomo e scese qui, tra noi…”
“ E voi che gli avete fatto? Se ho ben capito è morto sulla croce: lo avete ucciso?!
“Da allora sono passati quasi duemila anni. Proprio per noi è morto, per la nostra vita eterna.”
Da alcuni passi del diario, a questo punto, si evince il turbamento e la profonda costernazione che affligge Don Pietro, costretto a confessare le colpe di un’intera umanità.
“E tutto questo – domandò il marziano – è poi servito?”
Don Pietro ci racconta che cadde in ginocchio, si coprì il volto con le mani e così rimase per un lasso di tempo che non riuscì a definire. Quando li riaprì scorse i marziani che erano già sul davanzale, in procinto di andarsene.
“Uomo – chiese uno dei due – cosa stavi facendo?
“Pregavo – si giustificò il parroco – voi non pregate mai?
“Pregare noi? E perché dovremmo?
Il diario, a questo punto, racconta la compassione di Don Pietro per quelle creature pure, incontaminate dal peccato originale e da tutte le sue implicazioni. Dalle sue parole si capisce che sente un certo sollievo.
Saliti a bordo della navicella, questa cominciò a riemettere quel lieve ronzio e a illuminarsi della luce azzurrina. Infine si staccò dal tetto con la “leggerezza di una farfalla” per poi schizzare via verso il cielo, in direzione della costellazione dei Gemelli.
Il caso ufologico finisce qui, il diario, invece, raccoglie le ultime considerazioni del parroco che esprime la sua volontà di non rendere nota la vicenda, almeno finché è vivo (Don Pietro è morto il 15/12/2019) il suo timore di non essere creduto e la possibilità di essere addirittura deriso.


Questa è una fake news.

domenica 3 ottobre 2021

IL PREDATORE





Il 25 ottobre 1974, il 41enne Carl Higdon, che lavorava nell'industria petrolifera, andò a caccia per passare un week end nella Medicine Bow National Forest, nella contea di Carbon, Wyoming (USA). Higdon era un cacciatore esperto, ma non era mai stato in una foresta del genere: una zona remota e completamente disabitata. Finché poté, percorse gli impervi sentieri della foresta in auto, quindi s’incamminò su una piccola collina boscosa. Quando fu dall'altra parte della collina, avvistò subito un branco di Alci, uno dei quali era un grosso maschio con corna ramificate. Prese la mira, sparò, ma non udì alcun suono né il contraccolpo del fucile. Higdon osservò con stupore il proiettile del fucile che volava al rallentatore. Era così lento, che percorse solo per pochi metri per poi cadere improvvisamente a terra, come se avesse colpito qualcosa di invisibile. Il cacciatore, sbalordito per questi avvenimenti, entrò in apprensione: i suoi sensi, acuiti, ora percepivano un silenzio irreale e l’aria carica di elettricità statica, come dopo un violento temporale.
Raccolse il proiettile e notò che era appiattito. Era come se avesse colpito qualcosa e vi si fosse spiaccicato contro: non poteva essere l’Alce, poiché era fuggita. Fu in quel momento che si rese conto di non essere solo. Sentì scricchiolare dei rami e quando si voltò, alla sua destra, all'ombra degli alberi scorse una figura umana. 
Abbassò subito l’arma, poiché all’apparenza si trattava di un uomo, seppur molto alto. Indossava una tuta nera, attillata, simile a una muta da sub, corredata da un paio di cinture di sicurezza e una cintura di metallo con una fibbia a forma di stella gialla, in vita. La testa della creatura non era affatto umana: non aveva orecchie, i suoi occhi erano piccoli e infossati, la sua bocca era una fessura aperta in cui erano visibili tre grandi denti, dalla fronte gli spuntavano due corte antenne. I suoi capelli erano come paglia e stavano dritti. Non aveva un mento: la faccia, priva di mascella, sembrava proseguire con la gola. Le braccia erano molto lunghe. A un braccio aveva qualcosa di simile a uno scalpello attaccato al polso, mentre l'altro era monco: finiva nettamente al polso.
Questa strana entità fissò Higdon per alcuni istanti, poi si avvicinò di qualche passo e gli chiese, in inglese: "Come stai?" Higdon, sbalordito, rispose: "Okay", ma ci mise un paio di secondi per farlo. La creatura annuì e si avvicinò ancora di più. Non sembrava minaccioso, tant’è che chiese a Higdon se avesse fame. Senza aspettare la sua risposta, tirò fuori un sacchetto di plastica da qualche anfratto e glielo inviò facendolo levitare nellìaria come se fosse in grado di usare la telecinesi. Higdon afferrò il pacchetto, lo aprì e vi trovò dentro quattro pillole. La creatura affermò che le pillole lo avrebbero nutrito e si sarebbe sentito sazio per l’intera giornata. Il cacciatore ne estrasse una e la inghiottì, mettendo il sacchetto in tasca. A questo punto, la creatura si presentò: il suo nome era "Ausso One". Poi gli indicò qualcosa che si trovava alle sue spalle. Higdon vide un oggetto trasparente a forma di cubo: una navicella a forma di scatola con i lati di 1,5 m. Non vide alcun ingresso, nessuna finestra, nessun carrello di atterraggio. L'astronave poggiava direttamente a terra.
Ausso chiese a Higdon se voleva fare un giro e prima che il cacciatore potesse rispondere, in qualche modo, si ritrovò all'interno dell'astronave, come se fosse stato teletrasportato. Fu subito preso dal panico in quanto si avvide di essere legato, braccia e gambe, con una sorta di nastri. Quando si è calmato un po', ha realizzato che era immerso in un di campo di forza; insieme a lui, in quello spazio ristretto, che ora appariva grande quanto una stanza, “galleggiavano” cinque Alci. Erano congelati ed era sicuro che fossero le stesse Alci che aveva visto nella radura. Poi vide un'altra creatura, della razza di Ausso, nell'astronave. Questa si avvicinò al cacciatore e gli mise un elmo in testa. A questo punto, la nave decollò e Higdon poté vedere attraverso le pareti trasparenti la sua ascesa. Notò anche la sua macchina in fondo alla collina. In pochissimo tempo furono in orbita, quindi si avviarono nello spazio profondo fino a raggiungere un pianeta che, dalla forma, gli ricordava un pallone da basket. Scendendo, la nave si avvicinò a un'enorme torre. Intorno alla torre, molte luci colorate ruotavano come potenti riflettori, erano così luminose che Higdon dovette chiudere gli occhi. Quello che è successo dopo, Higdon lo ricorda appena. Ad un certo punto vide un gruppo di persone, ma non capì cosa facessero lì e chi fossero. Ausso gli riferì che la sua gente veniva regolarmente sulla Terra, distante 163.000 anni luce, per cacciare. Quindi l’uomo fu portato in una stanza, dove fu sottoposto a una scansione: una sorta di esame effettuato con uno strano dispositivo a forma di scudo. A questo punto, Ausso gli rivelò che non era adatto al loro scopo e che lo avrebbero riportato a casa.


Arrivarono sulla Terra con la stessa rapidità con cui ne erano volati via. Prima di rilasciarlo, Ausso si riprese il pacchetto con le pillole e avrebbe voluto prendere anche la sua pistola, che aveva osservato con molto interesse durante il breve viaggio ma, a quanto pare, qualche legge del suo pianeta gli proibiva di farlo o almeno così disse. Aggiunse che nelle acque del suo pianeta non c’erano pesci ed era un vero peccato perché gli abitanti li avrebbero graditi. Dopodiché, gli alieni scomparvero e Higdon si ritrovò nella foresta, completamente disorientato e spaventato.
Vagò in giro finché non trovò un mezzo di trasporto: solo dopo un po', si rese conto che era la sua macchina. Usò la radio per inviare un segnale di soccorso, poi si sedette in attesa dei soccorritori.
Quando la squadra di ricerca lo raggiunse, si scoprì che la sua auto era parcheggiata in fondo a un profondo canyon, a cinque miglia da dove l'aveva lasciata. Non capivano come fosse giunto fin lì: non c'erano strade nei paraggi e non c'erano tracce di pneumatici nella gola. Higdon, era così confuso che farfugliava: continuava a ripetere la storia del proiettile, che si era appiattito quando aveva colpito qualcosa di invisibile. A causa del forte stress, non fu in grado di riconoscere subito sua moglie. La maggior parte dei suoi ricordi vennero ottenuti solo in seguito, tramite sedute di ipnosi regressiva a cui lo sottopose lo psicologo Ronald Leo Sprinkle. Emersero altri particolari: su altri pianeti non ci sono animali, quindi gli alieni verrebbero sulla Terra per approvvigionarsene e allevarli. Higdon era convinto di “non essere adatto” poiché era stato sottoposto a vasectomia diversi anni prima. Si sottopose al test del poligrafo e lo superò senza problemi. Nel tempo, si presentarono diversi testimoni i quali affermarono che in quella zona, alla vigilia del suo rapimento, avevano visto strane luci nel cielo.
Fu effettuata una visita medica e si scoprì che le cicatrici lasciate dalla tubercolosi erano scomparse dai polmoni del cacciatore, così come i calcoli che affliggevano i suoi reni. L’analisi del sangue rivelò che era ricco di sostanze nutritive, vitamine e oligoelementi.
Il proiettile appiattito fu rinvenuto nella tasca della sua giacca e le analisi del materiale dimostrarono che avrebbe potuto subire un tale danno solo se avesse colpito una superficie dura, più dura del legno o della pietra.