Shackleton
raccontò che a un certo punto di quella odissea iniziò a percepire la presenza
nel gruppo di un altro ‘compagno’, che però non era visibile.
Il famoso esploratore antartico Ernest Shackleton,
narra che nell’ultima tappa della sua spedizione del 1914-1917 visse una
situazione drammatica. Insieme a due compagni e in condizioni estreme cercò
disperatamente di raggiungere una stazione marina britannica. Erano a corto di
cibo, disidratati, poco equipaggiati e molto vicini al collasso fisico.
Per una qualche ragione, sapeva che c’era una
quarta persona in viaggio con a loro, la cui presenza, benché invisibile, era
di conforto e incoraggiamento. Quando finalmente raggiunsero la stazione,
Shackleton decise di tenere questo dettaglio per se e non ne parlò nemmeno in
seguito. Solo dopo molti anni decise di raccontare la sua strana esperienza a
un giornalista, e il susseguente articolo incoraggiò i suoi ex compagni di
viaggio ad ammettere di avere vissuto anch’essi la strana sensazione di una
presenza invisibile che marciava con loro.
Cos’era la ‘presenza’ che i tre avventurieri
raccontarono di avere percepito?
Simili fattispecie furono registrate anche in
seguito a naufragi ed altre avversità raccontate, in tutto il mondo, dai
sopravvissuti. La scienza codificò il fenomeno con il nome di Fattore Terzo
Uomo. Di solito l’esperienza si verifica quando qualcuno si trova completamente
solo in estrema difficoltà, tanto da temere di non farcela e di perdere la
vita. Tuttavia è successo che sia stata sperimentata anche da più soggetti
contemporaneamente, come nella spedizione di Shackleton.
Nel caso di Frank Smythe, uno dei primi esploratori
a tentare la scalata del monte Everest, dopo che i suoi compagni avevano scelto
di rinunciare e fare ritorno al campo base, iniziò a percepire la presenza di
un compagno di viaggio invisibile. Ne era certo al punto che tagliò una seconda
fetta di torta e gliela offrì, prima di realizzare di essere solo e che nessuno
in realtà gli sedeva accanto.
A volte è
solo una netta percezione di non essere soli. In altre circostanze accade di
udire una voce che ti parla, ti incoraggia a non mollare.
Quando James Sevigney fu sorpreso da una valanga
sulle Montagne Rocciose canadesi, si ruppe la schiena in due punti, entrambe le
ginocchia e perse molto sangue. Nei momenti drammatici vissuti sepolto sotto i
detriti udì distintamente una voce intimargli che non poteva darsi per vinto:
doveva sopravvivere. Era una voce perfettamente distinguibile e proveniva da
pochi centimetri dal suo orecchio.
In altre circostanze la presenza assume addirittura
forma fisica. Peter Hillary racconta che quando visse una disavventura nel
corso di una spedizione al Polo Sud nel 1998, a un certo punto, fu accompagnato
da sua madre, morta in un incidente d’auto vent’anni prima.
Fattore comune di tutti questi episodi è la
condizione di enorme stress e pericolo vissuta dai narratori. Episodi analoghi
sono stati raccontati da esploratori, alpinisti, subacquei, marinai e
prigionieri di guerra, perfino un superstite degli attentati dell’11 Settembre
asserisce di essere stato guidato fuori dalle Torri Gemelle da una ‘presenza’
invisibile.
Il fenomeno stimola ipotesi interessanti. Molti
scienziati sostengono che tali presenze non siano altro che l’effetto di un
processo mentale che si innescherebbe sull’orlo della morte. Tuttavia il
processo sembra essere selettivo, dato che non scatta in chiunque si trovi in
condizioni disperate. L’unica cosa certa è che accade all’improvviso, è
percepito in modo diverso da un’allucinazione e in larga parte, chi l’ha
sperimentato sostiene che susciti un effetto benefico. Le condizioni essenziali
affinché si manifesti sono lo shock, la paura e lo stress.
Potrebbe
trattarsi di un fenomeno metafisico. Ipotesi che si adatta molto bene al mito
del cosiddetto “angelo custode.”
Al di là di quelle descritte, tutt’altro che
conclusive, non esistono teorie scientifiche in merito al fenomeno del Terzo
Uomo, specie per quei casi in cui si manifesti simultaneamente in un insieme di
soggetti.