Il sedici ottobre del 1973, alle ore 2:00 la signora Versacci, allora 43enne, stava guidando in autostrada e aveva appena superato l'uscita Langford Budville (Sommerset - Inghilterra). L'autostrada era deserta, ma in lontananza vide il bagliore di un faro, uno solo, che sembrava appartenere a un veicolo fermo. Quando si avvicinò si rese conto che era troppo luminoso per essere il fanale di un autoveicolo ma fu distratta dal motore della sua auto che iniziò a perdere colpi. I fari tremolarono, si affievolirono per poi spegnersi definitivamente. Infine, anche il motore si spense. Sebbene in preda allo sconforto, la signora Versacci riuscì a fermare l’auto accostandola al bordo della strada: era nella più completa oscurità. Per un po’ rimase nell’auto non sapendo bene cosa fare, poi scese e aprì il cofano della macchina per dare un’occhiata al motore. Udiva un ronzio, prima debole poi sempre più forte, ma non riusciva a capire da dove provenisse quel rumore che, di certo, aveva a che fare con l’avaria del motore. Mentre era lì, di fronte all'auto, una mano pesante calò sulla sua spalla e la spinse a terra. Lottò per affrontare il suo assalitore che si presentava come una figura metallica, alta e di colore scuro. Gabriella Versacci vide anche delle tremolanti luci multicolori poi, sopraffatta dallo spavento, svenne. Quando si riprese, era in piedi in un campo. Il "robot" era accanto a lei e davanti a loro c'era uno strano oggetto luminoso. Era a forma di mezzaluna: arrotondato in alto e piatto in basso. Di colore grigio argento, poggiava su grossi sostegni; Lei, in verità, ne vide due, ma sicuramente erano tre o quattro. Era alto circa 20 piedi, largo quaranta e aveva grandi finestre oblunghe da cui usciva una luce gialla. Gabriella riuscì a rendersi conto che il ronzio proveniva da quell’oggetto, poi svenne una seconda volta.
Si risvegliò in una strana stanza circolare. Era nuda, legata a un tavolo. Su di lei era stesa una coperta azzurra. Era assicurata al tavolo tramite dei "grandi elastici" che le immobilizzavano i polsi e le caviglie. Avvertiva la superficie fredda del tavolo. Anche l'interno del velivolo era gelido. Diede un'occhiata in giro e accostato a una parete vide il robot che rimaneva inattivo. Alla sua destra c'era una console ricoperta di pulsanti e quadranti. Il pavimento pareva ricoperto da una stuoia di gomma di colore nero. Pochi istanti dopo, tre individui entrarono nella stanza. Due si posizionarono alla sinistra del tavolo mentre il terzo andò ai suoi piedi e prese delle scatole o dei cubetti. Posò tre di questi oggetti su un binario, che correva per tutta la lunghezza del tavolo, uno vicino alla testa, uno ai suoi piedi e uno al centro. Non appena i cubi furono posizionati, iniziarono a brillare. I tre erano tutti più o meno della stessa altezza, che stimò dai cinque ai sei piedi. Di carnagione chiara e corporatura snella, indossavano tutti gli stessi indumenti chirurgici. Uno zucchetto, legato dietro la testa, che terminava appena sopra gli occhi. Avevano delle mascherine che gli coprivano il naso e la bocca, quindi erano visibili solo gli occhi e la fronte. Non si notavano capelli, ma riuscì a distinguere delle protuberanze sotto le cuffie. Gli occhi erano più rotondi del normale e non esprimevano alcuna emozione. Indossavano una tunica con una bordatura di colore grigio, guanti lunghi che arrivavano ai gomiti e grembiuli lunghissimi che arrivavano fino alle caviglie. Calzavano stivali dalla suola spessa. Ogni capo di abbigliamento era rigorosamente azzurro. Per tutto il tempo nessuno di loro parlò. Si guardarono spesso e ogni tanto annuivano. Pareva che neanche respirassero. Durante l'esame nessuno dei tre uomini la toccò. Quello in fondo al letto prese una serie di strumenti di colore grigio, che usò uno alla volta: un piccolo coltello per tagliare un'unghia dal dito indice della mano destra; una bottiglietta, che sembrava di plastica, da cui pendevano dei tubi e dei fili, con la quale eseguì un prelievo di sangue. La coperta fu rimossa e un oggetto sottile, simile a una matita, fu utilizzato per pungolarla e sondarla, mentre un dispositivo aspirante, apparentemente fatto di gomma nera, fu utilizzato nell'area inguinale. Presto l'esaminatore la ricoprì con un'altra coperta, che le fornì il calore di cui aveva assolutamente bisogno.
Notando i suoi frequenti sguardi verso il robot, ormai inattivo, l'esaminatore iniziò a parlarle in perfetto inglese. Il robot - le disse - era un dispositivo di recupero. Ha fatto tutto il lavoro manuale all’esterno dalla nave: ha portato gli esemplari per l'esame e lo studio. Era semplicemente un'intelligenza artificiale programmata per svolgere determinati compiti. L'esaminatore le parlava con una profonda voce maschile, anche se Gabriella non vide la sua bocca muoversi sotto la maschera. I suoi occhi non sbatterono mai le palpebre, nemmeno una volta. I suoi movimenti apparivano pratici, deliberati e precisi. Terminata la visita, tutti e tre, insieme, lasciarono la stanza. Fu a questo punto che Gabriella vide il robot illuminato da una luce lampeggiante, color porpora: non si mosse, continuò a rimanere vicino alla parete.
Ma le sorprese non erano finite. Ben presto uno degli uomini rientrò e si diresse ai piedi del tavolo. Sollevò l'estremità della coperta e cominciò a fissare il suo corpo. Lei avvertì un forte disagio e capì che stava per succederle qualcosa di terribile: Gabriella lottò disperatamente per liberarsi dai suoi legami. L'essere prese un piccolo spillo, glielo inserì nella coscia e lei smise immediatamente di agitarsi. Il dispositivo le causò un completo intorpidimento dei muscoli: riusciva solo a muovere la testa. L'uomo salì lentamente sul letto e senza mostrare alcuna emozione la violentò.
Gli alieni tornarono per liberarla dal tavolo. Gabriella riuscì a vedere i suoi vestiti a terra prima di svenire ancora una volta. Quando riprese conoscenza, era in piedi, completamente vestita, accanto alla sua macchina in una strada di campagna, deserta. Nonostante fosse provata e sconvolta, riuscì a tornare casa.
Il caso fu investigato dal ricercatore Thomas Eddie Bullard del CUFOS.
Il robot - le dissero - è solo un dispositivo di recupero. Ha fatto tutto il lavoro manuale all’esterno dalla nave: ha portato gli esemplari per l'esame e lo studio.
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