Re Artù e il mago Merlino sono due figure fra le più note nel mondo della mitologia. Viene da chiederci se sono esistiti davvero oppure sono personaggi leggendari. Tutto sommato, potremmo condividere i dubbi su Merlino ma, stupisce costatare come molti storici moderni mettano in forse anche la figura di Artù. Si parla per la prima volta dei due nel libro intitolato “Storia dei re di Britannia”, scritto attorno al 1135 dal vescovo gallese Goffredo di Monmouth, la cui credibilità viene messa a dura prova fin dal primo capitolo, laddove spiega che la Britannia avrebbe preso il suo nome dal guerriero Bruto, approdato sull'isola direttamente da Troia in fiamme. Circa cento pagine dopo, Goffredo cita un re di nome Vortigern, realmente vissuto, intenzionato a innalzare una grande torre sul monte Snowdon, in Galles. Ma ogni volta che un pezzo di costruzione veniva assemblato, immediatamente crollava. Dopo reiterati tentativi, tutti falliti, i suoi consiglieri gli rivelarono che l'unico modo per riuscire nell'impresa consisteva nello spruzzare il basamento della torre con il sangue di un bambino senza padre. Su suo ordine, gli emissari si sparpagliarono in tutto il regno alla ricerca del ragazzo, finché non lo trovarono. Quel ragazzo si chiamava Merlino. Vortigern mandò allora a chiamare anche sua madre, che era figlia del Re del Galles. La donna, costretta a parlare, rivelò che una notte era stata sedotta nella sua camera da letto da un giovane misterioso che dopo l'amplesso era come svanito nell'aria. Quindi, appurato che Merlino era davvero il ragazzo senza padre, il suo sangue avrebbe bagnato le fondamenta della torre, così come indicato dagli indovini reali. Merlino, intanto, era insorto: pronto a dimostrare che i consiglieri erano dei mentitori, aveva chiesto di essere condotto al loro cospetto.
- Volete sapere perché la torre crolla continuamente?- Aveva chiesto loro.
Tutti avevano scosso la testa, in silenzio.
- Perché sotto terra esiste una caverna colma d'acqua che ne mina le fondamenta.
Vortigern ordinò allora di scavare e di portare alla luce il lago. Ciò fatto, Merlino ordinò di prosciugarlo fino a che non avessero scoperto due grandi draghi (o serpenti). Quando anche questa previsione si avverò, Vortigern, impressionato, decise di risparmiare la vita al giovane indovino. In seguito, Merlino previde anche la morte di Vortigern: disse che sarebbe morto, bruciato dentro la torre. Ovviamente, tutto avvenne come predetto. Tempo dopo, Re Aurelio Ambrogio, legittimo erede al trono, invase la Britannia e incendiò la torre di Vortigern. Quando Ambrogio fu avvelenato dal fratello, il trono passò a Uther Pendragone. Conquistata la Scozia, Uther aveva invitato tutti i nobili del regno alla celebrazione della sua incoronazione. Fra questi c'era il duca Gorlois di Cornovaglia, accompagnato dalla bellissima moglie, Igerna. Uther restò folgorato da Igerna, gli fece una corte serrata; tanto da indurre il duca di Gorlois a lasciare nottetempo il castello. La fuga improvvisa aveva contrariato Uther, che era sceso in guerra contro Gorlois. Per evitare il rapimento della moglie, il duca aveva allora rinchiuso Igerna nell'imprendibile castello di Tintagel, che dominava inaccessibile su di un isolotto unito alla terraferma soltanto da uno stretto braccio di terra, unico accesso al maniero. Venuto a conoscenza di questo, Uther, ormai folle d'amore, cadde in una profonda depressione, perché non riusciva a pensare ad altro che a Igerna. Fu allora che Merlino, ricorrendo alle sue potenti arti magiche, cambiò le sembianze di Uther facendolo assomigliare a Gorlois. Sotto quelle mentite spoglie, Uther riuscì a penetrare nel castello e a unirsi con l'ignara regina. Quella notte fu concepito un figlio: Artù. Nel frattempo, mentre Uther era impegnato nel soddisfare la sua smania sessuale, il suo esercito attaccava le truppe del Gorlois. Nello scontro Gorlois moriva, lasciando Uther libero di impalmare Igerna e farne la sua regina. Dopo quindici anni di regno, anche Uther era stato assassinato e Artù era diventato il nuovo re.
Ma che fine hanno fatto la spada nella roccia, la Tavola Rotonda e tanti altri episodi famosi della saga arturiana? Semplicemente, tutto venne aggiunto in seguito, da autori e cronisti francesi. La forma definitiva del racconto fu poi data dall'opera di Thomas Malory dal titolo “La morte di Artù”, pubblicata da William Caxton nel 1485. Fino al 1926 non si sapeva granché a proposito di Malory, quando una ricerca letteraria ha rivelato (fra lo stupore degli studiosi) che si trattava di un lestofante, un ladruncolo che saccheggiava monasteri e rubava bestiame. Da quello che è emerso, Malory scrisse il suo capolavoro nella prigione di Negate, dove venne sepolto. Ma se Artù era appena un ragazzo quando suo padre morì, come avrebbe potuto dimostrare il suo diritto regale estraendo la spada dalla roccia? Malory supera il problema narrando che sin dal momento della nascita, Artù era stato adottato da Merlino, che lo aveva dato in affidamento a Sir Ector, la cui moglie aveva provveduto a crescerlo sano e forte. Insomma, tutta questa storia suona così assurda che si capisce benissimo come mai molti storici arricciano il naso quando devono esprimersi in merito alla sua autenticità. Uno dei loro punti forti di contestazione è un'altra fonte d’informazioni sull'epoca, dovuta a San Gilda, un monaco autore di un'opera crudele e forte, intitolata “De excidio et conquestu Britanniae” nella quale non si cita affatto Artù, sebbene si menzioni la battaglia del monte Badon, la più famosa fra quelle da lui sostenute. C'è però un'osservazione importante da fare. Un altro cronista, Caradoc di Liancarfan, autore di una biografia di San Gilda, ricorda che Artù uccise Hueil, uno dei fratelli del santo. Un fatto grave che potrebbe farci comprendere come mai Gilda non tenesse affatto a citare Artù nella sua storia. Allora, in definitiva, cosa sappiamo veramente in merito al leggendario eroe chiamato Artù? Sappiamo che non fu un re ma un condottiero, un generale. Non andava in giro su un candido destriero bianco, vestito con una pesante armatura medievale come siamo soliti immaginarlo, semplicemente perché visse un periodo storico molto precedente: nacque attorno al 470 d.C., nel momento in cui i Romani stavano abbandonando definitivamente la Britannia. Egli era, infatti, un romano, forse un cittadino romano. Attorno al 410 d.C. i Romani avevano deciso di abbandonare la Britannia: avevano necessità di richiamare tutti i contingenti disponibili per fronteggiare i barbari che minacciavano la stessa Roma. Era allora sorto un capo tribù di nome Vortigern che si era proclamato re della Britannia, subito contrastato dai selvaggi Pitti che vivevano a nord, al confine con la Scozia. Per far fronte a queste minacce, nel 433 Vortigern aveva chiamato sull'isola orde di mercenari sassoni affinché si congiungessero con il suo esercito. Così avvenne, ma quando era arrivato il momento di saldare il conto, poiché il re non era in grado di farlo, decisero che si sarebbero pagati da soli combattendo e razziando nelle terre di Britannia. Le popolazioni locali (i Celti) vennero poco a poco scacciate verso il Galles, la Cornovaglia e la Scozia. Fu a questo punto che intervenne un ex comandate romano di nome Ambrogio Aureliano. Sotto la sua guida i Celti si erano compattati e avevano riconquistato le terre perdute, ricacciando in mare gli invasori. Alla sua morte, il fratello Uther Pendragone, aveva rilevato il trono. Uno dei suoi più brillanti comandanti si chiamava Artorius, il leggendario re Artù, che poteva anche essere figlio di Uther. Fu proprio per merito di Artù che i Sassoni furono contrastati nel modo più fiero grazie a una serie di grandi battaglie, l'ultima delle quali avvenne sul Monte Badon, attorno al 518 d.C. Queste gesta epiche fecero di lui l'equivalente di un moderno generale Montgomery o di un Eisenhower. Se gli alleati si fossero mantenuti fedeli alla parola data, i Sassoni invasori non sarebbero tornati e sarebbero stati i Celti a governare l'isola. Sfortunatamente, gli alleati incominciarono a litigare disperdendo la loro energia e costringendo Artù a passare gli ultimi anni della sua vita a tentare invano di riconciliare il suo popolo. Poi anche per lui era venuta l'ultima, decisiva battaglia, quella di Camlann (secondo Goffredo avvenuta nei pressi del fiume Camel in Cornovaglia). Ucciso dal nipote Mordred e non dai Sassoni invasori, sempre secondo Goffredo di Monmouth, il corpo senza vita di Artù fu portato nell'isola di Avalon, da molti identificata con il centro di Glastonbury, all'epoca una piccola città nell'Inghilterra occidentale nota per una famosa abbazia e una collinetta sormontata da una torre. Anche se oggi Glastonbury non è un'isola, ci fu un tempo in cui, circondata com'era dalle acque del Canale di Bristol, poteva considerarsi tale. Poiché il luogo della sepoltura doveva necessariamente restare segreto per impedire che i Sassoni lo profanassero, la fantasia popolare diede corpo alla diffusissima leggenda secondo la quale Artù non era veramente morto, ma semplicemente dormiva in una grotta, pronto a ridestarsi non appena il suo popolo avesse avuto di nuovo bisogno di lui.
Nell'estate del 1113, circa vent'anni prima che Goffredo di Monmouth scrivesse la sua cronaca, un gruppo di preti francesi si presentò a Bodmin, in Cornovaglia, portandosi dietro alcune sacre reliquie. Quando uno dei locali rivelò agli ospiti che Artù non era morto ma stava semplicemente vegliando in un posto sicuro, pronto a intervenire in soccorso della sua gente, l'attendente di uno dei preti si era messo a ridere. L'affronto aveva provocato un violento contrasto di opinioni, fino al punto che un manipolo di uomini armati aveva fatto irruzione nella chiesa con l'intenzione di dare una severa lezione agli sfrontati pellegrini. La cronaca narra che solo con grande fatica si riuscì a ricomporre il dissidio. L'episodio dimostra come quella di Artù fosse già una figura leggendaria ancora prima che Goffredo desse alle stampe il suo capolavoro. Infatti, Artù viene citato numerose volte in alcuni poemi gallesi scritti circa un secolo dopo la sua scomparsa. Ma i riferimenti più importanti ci vengono da un'altra opera, una sorta di confusa collezione di materiale storico compilato da un monaco di nome Nennio, fra l'800 e l'820 d.C. Il riferimento più antico in cui Nennio menziona Artù, sono i cosiddetti Annali pasquali, ovvero le tavole delle ricorrenze della festività di Pasqua (una celebrazione che non cade in una data fissa) compilate dai solerti monaci. Il testo delle tavole copre un ampio margine di tempo. In corrispondenza dell'anno 518 si trova una notazione in latino che dice: “La battaglia di Badon nella quale Artù portò sulle spalle per tre giorni e tre notti la croce di Nostro Signore Gesù, grazie alla quale i Britanni uscirono vincitori.”
Una seconda postilla, relativa all'anno 539, segnala: “l'eccidio di Camlann, nel quale Artù e Modred morirono entrambi.”
Se diamo credito agli Annali pasquali, dopo Badon, Artù regnò dunque ancora per almeno ventuno anni.
Enrico II era un viaggiatore instancabile. Un giorno, nel corso di una spedizione in Galles, si era imbattuto in un bardo, il quale gli aveva rivelato che Artù era sepolto nelle cripte dell'abbazia di Glastonbury. Per proteggere il corpo dalle possibili vendette dei Sassoni, era stata scavata una fossa profonda quasi cinque metri. Il cantore rivelò anche l'esatta collocazione della bara, che si trovava fra "due piramidi". Il Re ne restò affascinato e contento, perché Artù era raffigurato come un grande generale, il più grande dal tempo di Giulio Cesare. Come pronipote del grande Guglielmo il Conquistatore, Enrico ben conosceva la leggenda popolare secondo la quale Artù sarebbe tornato in vita qualora la sua patria ne avesse avuto bisogno. Se fosse riuscito a trovarne la tomba e a dimostrare quindi che egli era morto per davvero, i ribelli che continuavano a fare di quella leggenda una sorta di bandiera l'avrebbero finita una volta per tutte con quella storia assurda. Così, il Re si era precipitato all'abbazia per dare la buona nuova. Stranamente, l'abate Enrico di Blois non si mostrò interessato alla vicenda. La sua abbazia, d'altra parte, era già una delle più ricche di tutto il paese e non aveva certo bisogno di altra notorietà per attirare i pellegrini. Ma di colpo, la situazione precipitò. Il 25 maggio del 1184 l'abbazia fu devastata da un terribile incendio che l'aveva quasi totalmente distrutta. Nel 1191 uno dei monaci morì esprimendo il pio desiderio di venire sepolto sotto l'edifico, in mezzo a due croci. Nel predisporre questo tumulo, furono scoperte due colonne marmoree che in qualche modo avrebbero potuto anche essere descritte come due piccole piramidi. Ai monaci vennero subito in mente le parole cantate dal bardo e già che c'erano, visto che lo scavo era ormai già iniziato, decisero di spingerlo fino ai cinque metri indicati come base della tomba di Artù. Scavando, s’imbatterono in una lastra di pietra che non persero tempo a sollevare. Nella sua parte interna scoprirono una croce di piombo che riportava un'iscrizione latina: "Qui giace sepolto il celebre re Artù, nell'isola di Avalon". Eccitati dal ritrovamento, i monaci continuarono a scavare. Finalmente, una volta raggiunta la quota indicata, i badili incontrarono qualcosa, che però non era né marmo né pietra ma legno. Si trattava di un sarcofago enorme, ricavato dal tronco scavato di una quercia. All'interno fu ritrovato il grande scheletro di un uomo, il cui cranio era segnato da profonde ferite. Un monaco che aveva intravisto una ciocca di capelli biondi e che aveva tentato di sporgersi nel sarcofago per prenderli, se li era visti svanire fra le mani e per l'emozione era caduto dentro con grande spavento. Poi si era trovato anche un secondo scheletro decisamente più minuto, immediatamente attribuito a Ginevra, la sposa di Artù. Un cronista del tempo di nome Giraldo Cambrense, testimone oculare, qualche anno dopo la riesumazione delle ossa e della croce riferisce che nell’iscrizione si citava anche la "Regina Wenneverla" (Guinevere, ovvero Ginevra). Da quel momento in avanti l'abbazia divenne il luogo turistico e di pellegrinaggio più rinomato d'Inghilterra, se non dell'intera Europa. Va da sé che l'abbazia fu ricostruita da cima a fondo in modo ancora più sfarzoso e ricco. Molti studiosi sono restii a credere a questa storiella e accusano i monaci di Glastonbury di averla inventata di sana pianta, tuttavia la cosa sembra poco plausibile. Giraldo Cambrense pare potersi definire un uomo onesto (è stato il primo a denunciare Goffredo e la sua Historia come un concentrato di fandonie) e sostiene di aver veduto con i propri occhi i due scheletri e la croce di piombo. Quest'ultimo oggetto fu conservato per molti secoli, tanto che nel 1607 William Camden, un illustre antiquario del tempo, ebbe ancora modo di trarne un disegno. Nel testo compare Arturius, antica forma in uso al tempo per indicare re Artù, che però non era mai stata usata fino a quel momento. Insomma, la confusione esiste. Tuttavia, recenti scavi effettuati nel 1963 da C.A. Radford hanno dimostrato che i monaci non mentivano quando dicevano di essersi spinti nello scavo fin oltre cinque metri. In definitiva, da tutto quello che si è detto, pare certo che re Artù (o il generale Arturius) sia esistito veramente, distinguendosi per la straordinaria bravura nel comandare e nel combattere. Questo, ovviamente, non risponde a tutti gli interrogativi, che continuano a essere molti, anche se la ricerca sta, piano piano, provando a risolverli uno dopo l'altro. Per esempio, sono molti gli studiosi che si dicono finalmente sicuri di aver identificato la posizione geografica della mitica Camelot, la meravigliosa corte di Artù. Nel 1542 uno scrittore di nome John Leland annotava che una certa collina fortificata di South Cadbury, nel Somerset, era in realtà da riconoscere come “Camallate”, un tempo famosa città o castello. Nel 1966 s’iniziò a scavare al castello di Cadbury. Sopra le rovine romane spiccavano altri importanti resti di edifici certamente in uso nel periodo arturiano da parte di qualche comandante di notevole autorità e potere. A questo punto anche l'apparentemente assurda storia sulla rocca di Tintagel narrata da Goffredo di Monmouth incomincia ad assumere un tono di maggiore credibilità. Il castello di Tintagel fu costruito nel 1140, vale a dire quando Goffredo scrisse la sua Historia. Secondo gli storici, al tempo di Artù in questa zona esisteva solo un antico monastero celtico ma, nella calda estate del 1983 un furioso incendio bruciò completamente tutta la vegetazione della piccola isola. Sono così venute alla luce le fondamenta di non meno di un centinaio di piccole costruzioni rettangolari e di un edificio, composto da una sola grande stanza, lungo circa 25 metri. Più in basso, ai piedi della collina, è emerso un piccolo porticciolo naturale e un po' ovunque nel territorio dell'isola sono venuti alla luce resti di ceramiche attribuibili ad anfore e giare, a indicare come olio e vino fossero materia di primo e forte consumo, largamente importata (la quantità di residui di tal genere trovati in questo sito archeologico superano da soli tutti gli altri mai rintracciati nel resto delle isole britanniche). Dall'altro capo dell'isolotto, di fronte a antichi tumuli sepolcrali celtico-cristiani, è venuta alla luce una roccia con un'impronta ben modellata sopra. Era usanza del tempo che i condottieri e i sovrani lasciassero questi segni del loro potere, per indicare il loro predominio sul territorio che dovevano difendere. Tutto questo induce a vedere in Tintagel la fortezza di un grande capo, qualcosa di ben di più di un semplice monastero. Pertanto, sostenere l'ipotesi che al tempo di re Artù fosse disabitata è alquanto azzardato.
Insomma, mettendo insieme tante diverse testimonianze, la realtà storica di Artù e delle sue imprese diventa poco alla volta sempre più accettabile.