Flessibilità. Il lavoratore oggi deve essere
flessibile. Quindi, niente contratto a tempo indeterminato.
Addio al posto fisso. Al massimo (e sei fortunato)
un contratto a termine.
Pronti a saltare da un contratto all'altro. È il
mantra che da anni ormai sentiamo ripetere e proprio da chi sta al calduccio
nel suo posto di lavoro a tempo indeterminato. Intanto, si esulta nelle stanze
governative per la diminuzione del tasso di disoccupazione che a novembre è
sceso all'11%, diminuito di un punto percentuale rispetto a dodici mesi prima.
L'aumento dell'occupazione evidenziato nel rapporto
Istat del novembre scorso, però, è dovuto soprattutto all'aumento dei contratti
a termine (pari a 450mila sui 497mila registrati tra novembre 2016 e 2017).
Quindi, un balzo del 18,3% del lavoro precario, che fa apparire modesta la
crescita di soli 48mila posti a tempo indeterminato, pari a un aumento dello
0,3% nell'arco di un anno. Non solo, dall'inizio del 2017 c'è stato anche il
boom del lavoro a chiamata. Secondo i dati dell'Osservatorio sul precariato
dell'Inps, le assunzioni a chiamata tra gennaio e settembre 2017 si attestano a
319mila, in crescita del 133% sullo stesso periodo dell'anno precedente. L’Osservatorio
sottolinea come questo significativo aumento può essere posto in relazione alla
necessità per le imprese di ricorrere a strumenti contrattuali sostitutivi dei
voucher. Se si va più in profondità nei dati si rileva come il tipo di figura
professionale richiesta rientri soprattutto in settori a basso grado di
qualifiche e bassi salari: addetti alla vendita, servizi personali e occupazioni
elementari.
L'occupazione aumenta, ma è precaria e il rischio,
soprattutto per i giovani, è di dover ricominciare da capo dopo tre anni (i più
fortunati che hanno già un contratto a termine, che non può essere rinnovato
oltre i 36 mesi). La flessibilità diventa precarietà nel momento in cui la
prima è, di fatto, utile alla frammentazione dei lavoratori e all’indebolimento
del loro potere negoziale che, anche laddove esistono diritti, questi non sono
esigibili. I voucher, come ricordano gli studi dell’Inps, non hanno affatto
arginato il lavoro nero, anzi in alcuni casi lo hanno addirittura fatto
aumentare. La loro trasformazione ma soprattutto l’introduzione della
tracciabilità hanno determinato un calo dell’uso dei voucher a favore dei
contratti a chiamata, anch’essi strumento contrattuale iper precario e ad alta
intensità di ricatto.
Si resta imbrigliati in contratti temporanei in un
mercato in cui si trova a competere con milioni di lavoratori che passano di
contratto in contratto. Significa anche non poter costruire un percorso
professionale che porti a maturare scatti di carriera e promozioni con
conseguenti aumenti salariali. Significa non poter fare progetti per il futuro.
Ma, i diritti dei lavoratori non li difende più
nessuno?
In Italia ci sono centinaia di (piccole) battaglie
sindacali e politiche per difendere i diritti dei lavoratori e le condizioni di
lavoro. Ma hanno poco credito, dal momento che manca un’organizzazione estesa
del conflitto sociale. Dopo trent’anni di lavaggio del cervello, lo
sfruttamento, sebbene riconosciuto, è dato come condizione naturale. Se non
sradichiamo questa visione, lottare per i propri diritti sarà impossibile. In
altri paesi, come la Francia, si mantiene, nonostante le ultime riforme, un
sistema di tutela dei lavoratori più profondo. Ad esempio, in Francia non
esistono gli H/24, così come non esiste l’obbligo del lavoro gratuito imposto
dalle leggi italiane come la buona scuola con l’alternanza scuola-lavoro. Si
tratta, infatti, di lavoro gratuito: quello dei giovani che fanno uno stage
dietro l’altro.
Marta Fana, ricercatrice in economia all'Istituto
di Studi Politici di Parigi, nel suo libro “Non è lavoro, è sfruttamento” (editori
Laterza) scrive: “Non è possibile ammettere
che i contratti a termine vengano usati senza alcuna ragione tecnica o produttiva,
ma soltanto per abbattere il costo del lavoro, rendendolo un fattore usa e
getta”.
Questo è il
risultato scellerato di scelte politiche ben precise, che hanno precarizzato
il lavoro e si abbattono sulla generazione dei giovani costretti a lavorare di
più e a guadagnare sempre di meno. Basti pensare al lavoro a cottimo dei
fattorini che consegnano i pasti a domicilio, quello degli addetti alla vendita
che lavorano nei centri commerciali, con orari lunghissimi e salari bassissimi.
La flessibilità si trasforma in una pericolosa precarietà permanente.
Chi difende i diritti dei lavoratori?
RispondiEliminaIn Italia ci sono centinaia di (piccole) battaglie sindacali e politiche per difendere i diritti dei lavoratori e le condizioni di lavoro. Ma hanno poco credito, dal momento che manca un’organizzazione estesa del conflitto sociale. Dopo trent’anni di lavaggio del cervello, lo sfruttamento, sebbene riconosciuto, è dato come condizione naturale. Se non sradichiamo questa visione, lottare per i propri diritti sarà impossibile.