Noi tutti siamo la testimonianza vivente di un processo iniziato 3.5 miliardi di anni fa, da quando le prime forme di vita comparvero sulla Terra. Ogni creatura vivente di questo mondo ha dovuto combattere per sopravvivere e niente come la paura di morire risveglia quell’istinto che ci ha permesso di restare su questa Terra. La paura della morte è probabilmente la forza più potente, quella in grado di modificare radicalmente il nostro comportamento. Nelle situazioni peggiori diamo il meglio o il peggio di noi stessi.
Era 12 ottobre del 1972, un Fairchild Hiller FH-227 appartenente alla Fuerza Aérea Uruguaya, partì dall’Aeroporto Internazionale di Carrasco con destinazione Santiago de Chile. A bordo del mezzo c’erano 45 persone, la maggior parte di esse erano membri appartenenti ad una squadra di Rugby chiamata Old Christians i quali dovevano giocare una partita contro gli Old Boys di Santiago. Oltre ai giocatori c’era il personale di volo e anche molti dei loro familiari. Qualche ora dopo il decollo, il tempo peggiorò in modo drastico e il Fairchild si trovo costretto ad atterrare all’aeroporto El Plumerillo, a Mendoza in Argentina, in attesa che il tempo migliorasse. Ripartirono il giorno seguente, venerdì 13 ottobre. Il viaggio anche in questo caso si era dimostrato più complicato del previsto perché le condizioni meteo non erano delle migliori, il pilota decise di viaggiare ad un’altezza di 6.000 metri, sotto di loro si estendeva una folta cortina di nubi bianche che coprivano tutto. Dopo alcune difficoltà iniziali, il viaggio sembrava procedere tranquillamente, purtroppo i piloti non si accorsero che la velocità di crociera si era ridotta di circa il 20%. Infatti i forti venti di prua causarono un rallentamento rilevante e soprattutto provocarono anche un’inconsapevole variazione di rotta che deviò l'aereo verso nordest. I piloti, dunque, comunicavano alle torri di controllo tempi e soprattutto posizioni sbagliate. La torre di controllo di Santiago, fidandosi della posizione segnalata dal copilota Dante Lagurara, diede l’autorizzazione a scendere. Una discesa che sia per il Fairchild che per il suo equipaggio risulterà tragica perché l’aereo non si trovava nelle vicinanze di Santiago come pensavano i piloti, ma stava sorvolando la possente Cordigliera delle Ande le cui vette raggiungono mediamente i 4.000 metri.
Vi furono forti scosse a causa delle turbolenze e in poco tempo l’aereo perse quota. Il pilota Julio Ferradas insieme al copilota lottò contro le condizioni avverse cercando di stabilizzare il velivolo e riuscirono a riportare l’aereo in assetto orizzontale. Quando finalmente oltrepassarono il banco di nuvole si accorsero dell’errore, ma era troppo tardi perché volavano vicinissimi alle spigolose vette rocciose. È probabile che i piloti, ormai consapevoli di non poter più riprendere quota, tentarono un atterraggio di emergenza sulla neve. Durante la manovra però l’aereo colpì la cima di una montagna con l’ala destra che finì per staccarsi dal velivolo. L’elica, ancora in rotazione, entrando a contatto con la fusoliera tranciò di netto la coda. Successivamente l’aereo perse anche l’ala sinistra dopo un violento impatto su una roccia. Rimase unicamente la fusoliera che, cadendo su di un pendio, continuò a scivolare sulla neve finché non si arrestò bruscamente. L’impatto causò il distacco dei sedili e i passeggeri vennero scaraventati e schiacciati in avanti. Il primo bilancio fu terribile, tredici persone morirono istantaneamente, mentre molti altri rimasero gravemente feriti: emorragie interne, ossa rotte, traumi cranici e altre disgrazie attanagliavano costoro eppure alcuni fortunati erano rimasti illesi. Ricordiamo che la Cordigliera delle Ande è fra i posti più inospitali del mondo, si tratta di una catena montuosa dove le temperature raggiungono anche i 40 gradi sotto zero durante la notte con dei venti che superano i 100 km/h. Durante la prima fredda notte morirono altre tre persone.
Nonostante il colpo e lo shock, la serenità prevalse nel gruppo di persone sopravvissute, consapevoli che la chiave per rimanere in vita era quella di non perdere la calma e di rimanere uniti. Ricordiamo che i passeggeri erano prevalentemente giocatori di rugby e quindi, fiduciosi che con il lavoro di squadra si possano raggiungere tutti gli obiettivi, iniziarono ad organizzarsi in questa partita per la vita. Dopo aver razionato il poco cibo rimasto si divisero in gruppi, uno era composto da coloro che avevano conoscenze mediche come lo studente di medicina Roberto Jorge Canessa e altre due persone incaricati dei feriti. Un altro gruppo si occupò di trovare acqua pulita e infine un terzo gruppo era incaricato di mantenere la fusoliera in ordine, per quanto possibile. Con un po’ di fortuna riuscirono anche a riparare una radiolina che si trovava dentro la fusoliera attraverso la quale potevano sentire le notizie riguardanti le ricerche. Successivamente Canessa costruì delle amache per i feriti e Adolfo Strach detto "Fito" trovò un modo abbastanza ingegnoso per trasformare la neve in acqua con le lamine dell’aereo. Costruì anche delle racchette da neve con dei mezzi di fortuna in modo tale da poter esplorare con relativa sicurezza il luogo del disastro. Ben presto si organizzarono le prime escursioni in cerca della coda dell’aereo e per osservare cosa c’era al di là della montagna. Nonostante l’entusiasmo iniziale la fortuna non era dalla loro parte, infatti le esplorazioni furono infruttuose e servirono solo a rafforzare la convinzione che lì fra quelle montagne non c’era niente da mangiare. La stanchezza, la disperazione e soprattutto la fame iniziarono a farsi largo nelle menti dei sopravvissuti mentre i morti aumentavano. La sera del 22 ottobre erano tutti riuniti all’interno della fusoliera quando ascoltarono inorriditi le notizie alla radio: "Le ricerche del Fairchild FH-227 sono state inutili e verranno sospese". Quelle parole, uscite da quella fredda scatolina, lanciarono una bomba di silenzio che lasciò attoniti i sopravvissuti mentre fuori il vento e la neve sembravano avere l’ultima parola. A quel punto tutti presero insieme l’unica decisione e purtroppo anche la più drastica per poter sopravvivere, decisero di mangiare i corpi dei morti. La decisione non fu delle più facili, ma dobbiamo credere che la disperazione e la voglia di vivere li spinse a farlo. Una delle poche cose certe è che il primo a rompere il tabù fu proprio Roberto Canessa. Consapevoli che non sarebbero mai venuti a prenderli, iniziarono le nuove spedizioni sperando di trovare la coda dell’aereo e con essa qualche cosa utile per la loro sopravvivenza, ma furono tutti sforzi inutili e una settimana dopo, il 29 ottobre, accadde un’altra tragedia: una valanga si abbatté con tutta la sua furia sulla fusoliera. Ancora un volta la sorte non sembrava dalla loro parte. Otto persone furono sepolte dalla neve per sempre, quella notte, solo sedici riuscirono ad uscirne vivi, uno di questi era Fernando Parrado il quale insieme a Canessa diventerà determinante nel resto di questa storia.
Venerdì 17 Novembre. Dopo una ricerca interminabile, un gruppo composto da Canessa, Parrado e Antonio Vizintín riuscì finalmente a trovare la coda dell’aereo. C’erano alcune valige contenti cibo, sigarette, fiammiferi e batterie per la radio ma quest’ultime purtroppo risulteranno inutili perché la radio nel frattempo era diventata inutilizzabile. Il recupero però fu di enorme importanza per il morale e fornì un barlume speranza ai pochi rimasti in vita. Dopo le fruttuose ricerche condotte dai tre prescelti, il gruppo decise che dovevano andare verso ovest alla ricerca di civiltà e dare l’allarme. Il 12 dicembre Canessa, Parrado e Vizintin partirono nell’ultima e definitiva spedizione verso il Cile. Le condizioni erano terribili. Il freddo, la tempesta e la fame erano come un enorme mostro al quale erano esposti costantemente. Dopo essere saliti sulla montagna e aver visto il deserto bianco che li attendeva, decisero che Vizintin doveva tornare nella fusoliera perché le razioni non sarebbero bastate per tutti e tre. Tutte le speranze erano dunque riposte in Parrado e Canessa, in particolare Parrado disse: - Quel giorno ci incamminammo verso Ovest senza una meta precisa. Eravamo certi solo di una cosa, non saremmo mai più tornati in quella fusoliera. Tra morire di fame dentro quell’aereo e morire là fuori preferivamo morire cercando di arrivare da qualche parte. -
I due camminarono per cinque giorni soffrendo e sperando di trovare la fine di quel labirinto di neve. Dopo sei giorni di estenuante cammino, i due scorgono qualcosa di incredibile. Dopo aver camminato per circa sessanta chilometri, arrivarono alla "Precordillera de San Fernando", una valle verde dove non c’era più neve ed entusiasti dalla scoperta i due si mettono a correre. Trovano un fiume, dei fiori, erba e animali selvatici, tutte cose che non vedevano da mesi! Sembrava un paradiso rispetto a quell’inferno bianco in cui si erano trovati. Dopo aver riposato tutta la notte si mettono in marcia di prima mattina e mano a mano che proseguivano, trovarono altri segni di civiltà come lattine di sughi, mucche e alberi tagliati. Canessa ad un certo punto si sentì male, così Parrado portò tutti e due gli zaini come sforzo finale di quest’odissea. Ormai erano vicini alla salvezza e il 21 dicembre come un miraggio, scorgono un uomo a cavallo che si trovava dall’altra parte di un torrente, così i due si misero a urlare, ma le loro voci vennero sovrastate dal fragore del corso d'acqua. Il contadino però vedendoli in quello stato pietoso capì che gli era capitato qualcosa di grave, quindi ingegnosamente lanciò dall’altra parte del fiume una sasso con un foglio e una matita legati ad esso. Dopo aver ricevuto la risposta il brav’uomo lancio dall’altra parte del fiume pane e formaggio e si premurò di avvisare la polizia. Senz’altro in quel momento i due sventurati avrebbero voluto abbracciare quel contadino che rispondeva al nome di Sergio Catalan Marinez. Nessuno dei sopravvissuti scorderà mai quel nome. Il giorno seguente, venerdì 22 Dicembre, un elicottero si occupò del recupero dei restanti 14 sventurati. Seppero anche il motivo per cui non riuscivano a trovarli: gli ultimi dati trasmessi dai piloti, riguardanti la posizione dell’aereo, erano del tutto errati. Due dei sopravvissuti tornarono immediatamente a Montevideo mentre gli altri 14 festeggiarono insieme il più bel Natale, consapevoli che il miglior regalo che si può avere nella vita è… La vita stessa.
"Ho rivisto milioni di volte quei giorni, non faccio altro. Ma noi non avevamo scelta. Noi eravamo morti per tutti. Per tornare alla vita non avevamo altra scelta che resistere a qualsiasi costo. La nostra è una vicenda esemplare e unica, insegna agli altri esseri umani che pur di sopravvivere siamo capaci di superare qualsiasi orrore."
Carlos Paez, uno dei sopravvissuti.
Quel giorno ci incamminammo verso Ovest senza una meta precisa. Eravamo certi solo di una cosa, non saremmo mai più tornati in quella fusoliera. Tra morire di fame dentro quell’aereo e morire là fuori preferivamo morire cercando di arrivare da qualche parte.
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