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lunedì 23 dicembre 2019

IL CASO STRAORDINARIO DEL DOTTOR X


È un caso straordinario molto noto agli ufologi di lingua inglese grazie al lavoro di Jacques Vallee, che ne venne a conoscenza dal suo mentore Aimé Michel (Michel usò lo pseudonimo "Doctor X" per proteggere l'identità del testimone, poi ha pubblicato “Forbidden Science Vol. 4” in cui ha rivelato il suo vero nome: Pierre Gueymard). Gueymard nacque nel 1930 e fece carriera come medico. Questo successo gli permise una vita confortevole in una grande villa francese ubicata in collina, dove viveva con la moglie e il figlio di quattordici mesi.
Fu proprio il pianto del bambino a svegliare Gueymard la notte del 2 novembre 1968. L'uomo andò a controllare il bimbo,  seppur camminava con difficoltà, in quanto tre giorni prima si era inferto una brutta ferita a una gamba con un'ascia, mentre spaccava la legna. La stanza di suo figlio era buia, ma si illuminava a causa di alcuni lampi che provenivano dalla finestra. La luce era così intensa da filtrare attraverso le persiane chiuse. Trovò il bambino completamente sveglio che, dalla culla, indicava la finestra, ma in quel momento Gueymard non prestò alcuna attenzione a ciò che succedeva lì fuori; così somministrò una bottiglia di latte al bambino irrequieto. Più tardi, il dottore notò che una persiana sbatteva agitata dal vento e si premurò di chiuderla per bene. Fu allora che notò qualcosa di irregolare in quei lampi che si succedevano troppo rapidamente e a intervalli prefissati. Nel ricercare la fonte di quel fenomeno luminoso finì per uscire sul balcone e assistette a uno spettacolo fantastico.




Dal suo punto di vista privilegiato Gueymard osservò due grandi dischi identici che sembravano divisi in due sezioni. La sezione superiore era di colore bianco argenteo, mentre quella inferiore era di colore rosso, ricordava il sole al tramonto. I “piatti” sovrapposti erano perfettamente orizzontali e proiettavano un raggio bianco brillante direttamente al suolo. Un'antenna verticale sormontava ciascun oggetto e su due lati avevano entrambi un'antenna orizzontale più corta da cui iniziarono ad apparire piccole scintille appena i dischi cominciarono a muoversi.
Dopo aver avanzato lentamente, rimanendo sempre affiancati, i due oggetti si fusero in uno solo e il disco rimanente cambiando rotta sorvolò il testimone che, nel frattempo, era rimasto immobile sul balcone. Il raggio bianco che emanava dalla sua metà inferiore investì Gueymard, poi si udì un forte botto e l'oggetto scomparve completamente, lasciando una nebbia biancastra che il vento provvide a dissolvere rapidamente e un filamento molto luminoso verso l’alto che, con altrettanta rapidità si trasformò in un puntino, per poi sparire, a sua volta, definitivamente. A quel punto il dottore decise di rientrare. Svegliò sua moglie per raccontarle ciò che era successo. Era così agitato che, durante il racconto, non riusciva a stare fermo. Fu così che la moglie gli fece notare che non zoppicava più. Non senza stupore, notarono entrambi che la ferita alla gamba era completamente guarita: ora riusciva a camminare senza alcun dolore. Non solo, ma anche una vecchia ferita molto più grave, subita in Algeria (dove prestava servizio nell'esercito) era misteriosamente scomparsa (nel 1985, un rapporto medico indipendente confermò, anche se non poté spiegare, la completa scomparsa delle lesioni che Gueymard aveva subito in Algeria nel 1958).
Nei giorni seguenti Gueymard iniziò a soffrire di alcuni disturbi anormali: dimagrì e soffrì di dolori addominali. Sull’addome comparve, per tre giorni, un curioso triangolo rosso attorno all'ombelico e un triangolo simile apparve sulla pancia di suo figlio. Vi sono altri aspetti insoliti che compendiano il caso del "Doctor X"; includono incontri ravvicinati con strani visitatori, levitazione, teletrasporto e persino la comparsa spontanea di facoltà psichiche che, per brevità, non tratteremo in questo articolo.

sabato 14 dicembre 2019

MALEFICI



Molto di ciò che sappiamo sulla magia ci viene dalle ricerche compiute dagli antropologi presso le tribù di cultura arcaica. Salvo qualche variante, dovuta a differenze culturali, la magia praticata da questi gruppi contemporanei, dislocati in tutto il mondo, sembrerebbe fondarsi su concetti che sostanzialmente non sono cambiati da 25.000 anni a questa parte. Temi classici come l'animismo, la paura dei morti e i principi di magia imitativa e contagiosa, sembrano esercitare sulle comunità dell'Oceania, dell'Africa e delle Americhe dei giorni nostri, lo stesso ascendente che avevano sugli uomini di Cro-Magnon. Alla base di tali credenze c'è la convinzione che in ogni cosa, vivente o inanimata, alberghi uno spirito invisibile ben vigile e molto potente. Quindi, quando un Indio dell'Amazzonia uccide un giaguaro, la cosa non finisce lì, poiché lo spirito potenzialmente vendicativo dell'animale, deve essere placato. Per la stessa ragione, un Ashanti del Ghana, non abbatte un albero senza prima compiere un rito per placare lo spirito dell'albero. Un metodo quasi universale per cavarsela, con le moltitudini di spiriti invisibili, consiste nel costruire per loro appositi sacrari e se, uno spirito può essere convinto a prendere dimora in un luogo sacro, è più facile contenerne il potere. Con un po’ di fortuna, questo spirito “addomesticato” può anche iniziare a prendersi cura della vita di chi ha costruito la sua sacra dimora. È per questo che le tribù della Nuova Guinea, costruiscono regolarmente piccole templi o case degli spiriti, provvisti di vivande, vicino al porcile di casa, poiché se riescono ad attirare Nakondisi, "Lo spirito della Foresta", questi vigilerà sui porci.
 
 
 
Dei molti spiriti, che popolano il mondo tribale, nessuno è potenzialmente più fastidioso degli spiriti dei morti, i quali possono essere anche la reincarnazione di spiriti di nascituri. Per molti, lo stato di morte non sembra molto lontano dallo stato di vita, poiché i villaggi sono popolati da generazioni di fantasmi coinvolti nelle vicende della comunità come lo erano da vivi. In realtà, le uniche differenze importanti tra vivi e morti, sono che i secondi sono incorporei e che, in talune culture, hanno molti più poteri magici dei vivi.
In una società pervasa da tali credenze è naturale che, colui che detiene la facoltà di comunicare con il mondo degli spiriti, rappresenti un valore essenziale per la società in cui vive. Ogni tribù comprende una persona di questo genere, chiamata, secondo i casi: stregone, sacerdote, ngaga, saggio, houngan o sciamano. Quest’ultima parola, usata dai Tungusi della Siberia orientale, è adottata dagli scienziati moderni per designare i sacerdoti tribali. Lo sciamano della tribù, è maestro, mago della pioggia, guaritore, veggente, protettore e principale tramite con il mondo degli spiriti: senza di lui la tribù sarebbe perduta. La maggior parte della loro attività magica, ricade in una delle due categorie accennate, ovvero la magia imitativa (spruzzare acqua nell'aria per evocare la pioggia) e magia contagiosa (scagliare una maledizione su un nemico). Lo sciamano comunica con gli spiriti mediante la "Trance", durante la quale il suo corpo sembra posseduto da uno spirito evocato per l'occasione. Un gran numero di antropologi hanno assistito personalmente allo svolgimento di questi riti, riconoscendone il potere. Solo alcuni di questi cosiddetti poteri, sono oggi spiegabili scientificamente: per esempio, molte delle erbe curative tradizionali usate dagli sciamani per secoli, hanno dato prova della loro efficacia nella ricerca medica.
 
 
 
Per diventare “uomo di medicina” presso i Navajo c’è un lungo apprendistato da seguire che dura moltissimi anni e in diversi casi, queste persone collaborano attivamente, nelle riserve, con il Servizio Statunitense di Salute Pubblica. La loro efficacia nel risolvere casi di malattia, anche grave, ha dato risultati sorprendenti e negli ultimi anni, sono stati condotti moltissimi studi clinici che confermano questi fatti.
Come in tutti i campi, anche in quello della medicina indigena vi sono però delle vere e proprie devianze, un lato oscuro che solo raramente viene reso pubblico.
Alcuni uomini di medicina integrano le loro conoscenze con la magia nera e pratiche malvagie mirate a infliggere dolore, sofferenza e morte ai propri simili. Così, l’uomo di medicina diventa uno stregone che agisce sotto mentite spoglie e rappresenta un male per l’intera comunità.
In casi estremi, lo stregone può acquisire un potere enorme, domina la natura e le cose, la mente degli uomini, condiziona i loro gesti. Per ottenere tutto ciò lo stregone deve compiere atti contro natura, incesti, necrofilia, profanazione di tombe, omicidi, azioni malvagie e terrificanti come uccidere un amico, un fratello, una sorella, un genitore. Più il parente è stretto, maggiore sarà il potere acquisito.
All’apice del loro potere, gli stregoni – secondo la credenza navajo – potranno trasformarsi in creature animali come lupi, coyote, orsi, puma, o spostarsi da un luogo all’altro con la rapidità di un uccello, potranno arrampicarsi sulle mesas e sui torrioni del deserto come linci, potranno strisciare e nascondersi negli anfratti come rettili, o volare come i corvi e le aquile: saranno diventati skinwalkers (in navajo: “yee-naaldlooshii” colui che cammina su quattro zampe).
Bisogna capire che nella tradizione navajo, la capacità di trasformazione da uomo ad animale non è un concetto assurdo. Infatti per la gran parte dei nativi americani e di molti altri popoli primitivi, l’individualità di ciascuno non si ferma alla periferia della sua persona fisica. Le frontiere sono estremamente labili, sfumate, possono variare di molto a seconda che un soggetto possegga una maggiore o minore forza mistica.
Si può dire che oltre alla parte fissata al corpo, l’anima del primitivo possegga una parte libera, eccedente, la quale può “attaccarsi” a questa o a quella cosa. Nell’idea dei primitivi, gli abiti, i resti del cibo, le armi, gli escrementi o gli umori, gli oggetti che una persona abbia prodotto , lavorato o anche solo toccato, possono trattenere qualcosa della sua anima, sì da giungere occultamente ad essa, indipendentemente dalla distanza spaziale.
Per la trasmigrazione dell’anima da un corpo all’altro, lo stregone fa spesso uso di droghe e feticci. Le droghe sono il vettore del viaggio psichico, il mezzo con cui l’anima si stacca dal corpo, mentre il feticcio rappresenta la destinazione finale della trasmigrazione, una specie di “indirizzo” verso il quale andare.
Molte volte l’invasamento o possessione spiritica si verifica durante il sonno, durante il quale la parte sottile dell’essere è ancora più libera da quella corporale visibile. In tali circostanze si può verificare un trasferimento dell’anima nel corpo di un dato animale dando luogo a una vera e propria bilocazione o bi-presenza.
Nei casi di vera e propria possessione invece, l’anima viene scacciata dal corpo e sostituita interamente da quella dello stregone. Detto ciò, è facile intuire come molti tipi di malattia o infermità siano interpretati come fatture e malocchi, fino ai casi più seri nei quali la vittima cessa di vivere, a volte senza un motivo apparente. Vi sono fatti precisi – narrati da viaggiatori – di persone, che dormivano lontano, trovate ferite e persino uccise nei loro letti.
Può anche capitare che sia la vittima stessa a darsi la morte, suicidandosi.
 
 
 
Secondo la legge dei navajo, gli stregoni e a maggior ragione gli skinwalker, sono persone che hanno rinunciato al loro status di uomini e si sono asserviti completamente al male. Chi viene riconosciuto come strega o stregone, può essere eliminato all’istante e nessuno verrà mai incriminato per la loro uccisione.
Anche il navajo che trascuri un precetto sociale può essere accusato di stregoneria. Lo stregone è quindi un sovvertitore dell’ordine morale stabilito dagli uomini.
Alla pari degli antichi sabba del’600, i navajo raccontano che gli stregoni si radunano la notte, fanno accedere i neofiti che portano come scotto la prova di un omicidio, spesso di un familiare. Insegnano a preparare un veleno fatto di cadaveri di bambini, a lanciare tutti insieme maledizioni, a fornicare con cadaveri, a mangiare carne umana, nudi, mascherati e ingioiellati, ognuno servito da un ragazzino ridotto a larva. Queste notti infernali sono state descritte più volte dagli stessi indiani e i loro resoconti assomigliano in maniera impressionante ai verbali dei processi della Santa Inquisizione durante la grande caccia alle streghe in Europa e nel Nuovo Mondo tra il XV e il XVIII secolo. In entrambi i casi si nota, da parte degli accusati, la chiara intenzione di sovvertire la morale e di scardinare le regole della società ricorrendo ai crimini e alle pratiche più nefande.
Le analogie tra due culture profondamente diverse come quella cristiana europea e quella amerinda navajo, investono anche la fenomenologia più estrema della stregoneria, la trasmutazione dell’uomo in animale. Lo skinwalker navajo raggiunge la vetta della malvagità rompendo tutti i tabù e si trasforma in lupo, coyote o gufo.
Presso i navajo, le pelli animali sono usate con molta cautela, proprio a causa della magia che queste possono emanare una volta indossate, soprattutto quelle di orso, coyote, puma o lupo. Le poche pelli che vengono usate sono principalmente quelle di pecora, cervo e antilocapra, animali erbivori e inoffensivi.
I navajo sono riluttanti nel raccontare ai bianchi le esperienze avute con gli skinwalker.
Nei rari resoconti, si parla di incontri avvenuti di notte, a volte di veri e propri attacchi alle abitazioni, con gli skinwalker che cercavano di buttare giù la porta, battevano sulle finestre, camminavano sui tetti delle case tentando di penetrare all’interno. In molti casi gli skinwalker cercavano di provocare incidenti automobilistici attaccando gli stessi veicoli durante la corsa.
Per paura che alcuni oggetti personali possano essere usati dagli stregoni per costruire malefici, i navajo non lasciano mai incustoditi abiti o scarpe e per lo stesso motivo, prestano molta attenzione a dove sputano, orinano o defecano: anche i fluidi corporei possono essere usati alla pari di capelli, unghie e vestiti per lanciare maledizioni e sortilegi.
 
 
 
Nel 1878, vi fu una vera e propria caccia alle streghe che sconvolse la vita dei navajo nella riserva loro assegnata dal Governo Federale.
L’1 settembre 1866, l’irriducibile Manuelito si consegna alle truppe americane a Fort Wingate. È la fine della guerra, per i navajo, ma è anche l’inizio di un lungo calvario nelle riserve. La loro destinazione è Fort Sumner, noto anche come Bosque Redondo, un calcinato angolo di deserto nel New Mexico dove la sola sopravvivenza è una scommessa che si rinnova giorno dopo giorno.
Manuelito e i suoi raggiungono il resto del loro popolo che due anni prima si era già arreso alle giacche blu ed era stato deportato dopo una lunga marcia forzata in questa specie di lager dove la poca acqua disponibile è malsana e il suolo totalmente improduttivo. La tubercolosi, la fame , la dissenteria, i soprusi dei bianchi, la scarsità delle razioni alimentari, i furti e l’ostilità degli altri inquilini della riserva (gli apache mescalero) fanno il resto. I navajo cominciano a morire come mosche, soprattutto i più deboli, vecchi e bambini.
Due anni più tardi, una delegazione degli uomini più in vista della tribù ottiene il permesso di recarsi a Washington per rinegoziare i termini della resa e ottenere una nuova riserva. Viene firmato un nuovo trattato, uno dei pochi che non verrà mai violato e ai navajo è assegnato il territorio delle montagne Chuska, nel cuore del loro antico paese. La nuova vita nelle Chuska Mountains, però, non ridà ai navajo l’autosufficienza di cui hanno disperatamente bisogno. La scarsità dei raccolti e una lunga serie di calamità naturali li vincola sempre più alle magre razioni fornite dai bianchi. Gli indiani seminano qua e là, vicino alle conche e alle rare pozze d’acqua, ma non c’è alcuna sicurezza nei raccolti.
Durante la prima estate nella riserva, nel 1869, il raccolto è ritardato a causa della neve primaverile e poi distrutto dal gelo. Nel 1870 cade la grandine con chicchi grossi come uova; nel 1876 arrivano le cavallette; nel 1878 e 1879 la siccità; nel 1880, il vento e la pioggia; nel 1881 ancora la siccità seguita dalle inondazioni.
Non sono annate eccezionali: è il clima della riserva, quello di sempre. Solo che, per un popolo che anticamente viveva di allevamento e razzie, era quasi ininfluente sulla qualità di vita. Ma ora bisogna coltivare e seguire la via dell’uomo bianco che vuol trasformare l’antico predone in un efficiente contadino. I bianchi non sembrano aver capito che le Chuska Mountains non potranno mai diventare degli orti verdeggianti e delle grandi colture irrigue. O forse lo sanno e di proposito, invitano gli indiani a dissodare, seminare, irrigare; in un gioco perverso fino allo sfinimento e alla disperazione.
Le razioni alimentari e i generi di supporto inviati dal Governo Federale sono un’elemosina, i navajo indossano gli abiti laceri smessi dai bianchi e i sacchi di farina recuperati dalle derrate alimentari. Non vale nemmeno la pena costruire nuove case, si vive qua e là in tuguri di frasche e fango, grotte, ripari naturali, buche nel terreno. Fame e frustrazione portano molti giovani all’alcolismo che presto diventa una vera e propria piaga per l’intera tribù. L’alcol inebetisce, fa dimenticare per un po’ la triste condizione del presente e se dopo rende incapaci di stare in piedi e lavorare, comunque non c’è nessun lavoro da fare.
I navajo sono un popolo vinto, demoralizzato, abbruttito dall’alcool e dalla miseria.
Ma non tutti se la passano così male. Alcuni riescono stranamente a prosperare, accumulano qualche derrata alimentare in più, posseggono animali da lavoro, sono “ricchi” per il semplice fatto di non morire di fame e di stenti come gli altri. Si diffondono voci, sospetti e invidie. Impossibilitato a riversare la sua rabbia contro i bianchi, il popolo navajo la rivolge su se stesso come il cane idrofobo che si azzanna la coda.
Com’è possibile che il ritorno alla terra natia dopo il calvario di Bosque Redondo si sia tramutato in un incubo senza fine? Di chi è la responsabilità di tutto questo? Chi è che trama contro il suo stesso popolo? La parola che viene sussurrata con odio e terrore da una rancherìa all’altra è sempre la stessa: “iinzhiid”, stregoni!
Si comincia a indagare, interrogare, rovistare qua e là alla ricerca di indizi e prove di stregoneria. Vengono riesumate dal terreno, dov’erano state precedentemente occultate, ciocche di capelli, oggetti personali e unghie di persone decedute negli ultimi tempi.
All’inizio dell’estate del 1878 la tensione nella riserva è al massimo. Un’insensata orgia di sangue e violenza dove leadership, parentele e amicizie si dissolvono all’istante come neve al sole. La caccia alle streghe sta scivolando pericolosamente verso il baratro della guerra civile e se non si interviene al più presto, per il popolo navajo è la fine.
Per fortuna, i vecchi capi riescono in breve tempo a ristabilire la loro autorità grazie anche all’intervento dell’esercito che disarma i più facinorosi e ricompone le diverse fazioni.
Oggi non sappiamo quante persone furono uccise durante i disordini dell’estate del 1878, forse qualche decina, ma sicuramente molte altri furono eliminati silenziosamente e lontano da occhi indiscreti nelle zone più remote della grande riserva.
 
 
 
La paura degli stregoni e del loro malvagio potere non si esaurisce con la fine dell’800. Presso molte comunità indigene del sudovest essa è viva più che mai nonostante i lunghi processi di acculturazione ed integrazione operati da istruzione scolastica e Chiesa.
I miti e le credenze dell’antica religione oggi sono mescolati con il nuovo credo cristiano o sopravvivono in forma separata, quasi un mondo parallelo nascosto nelle viscere del culto maggioritario.
Ma non sono solamente i navajo a credere nei poteri soprannaturali degli stregoni e nella loro emanazione più perversa e pericolosa, cioè gli skinwalker. Anche gli Hopi, i pueblos e soprattutto i confinanti ute credono nella stregoneria.
 
 
 
Oggi negli assolati deserti del sudovest americano, le leggende di misteriose apparizioni e di strani fenomeni, sono diventati il pane quotidiano di ufologi e studiosi del paranormale, nonché il soggetto preferito di molti scrittori e cineasti che qui continuano ad ambientare le loro storie.
I nomi di alcune località nella zona dei “four corners” come Kayenta, Sedona, San Luis Valley ed Elbert County sono diventati dei classici per gli appassionati del mistero.
Se a volte è difficile spiegare la complessa fenomenologia paranormale di queste località, è però molto più semplice tracciare una specie di “profilo” che accomuna questi luoghi. Nella maggior parte dei casi infatti, si tratta di zone rurali e selvagge, spesso desertiche, dove la popolazione è ridotta e sparpagliata e con una densità media per Km quadrato molto al di sotto della media nazionale. Il livello culturale e il reddito medio pro capite sono fra i più bassi degli Stati Uniti.
In prossimità di tutti questi luoghi vi sono basi militari più o meno importanti.
Ma una caratteristica accomuna, più di ogni altra, questi “luoghi magici”: la forte presenza indigena.
Uinta Basin (Utah), Dulce (New Mexico), Kayenta (Arizona), Sedona (Arizona), San Luis Valley (Colorado), Elbert County (Colorado). Unendo con una linea immaginaria queste località otteniamo un poligono che rappresenta l’antico territorio delle genti Navajo e Ute. E se risaliamo ancor più indietro nel tempo, otteniamo l’esatta ubicazione geografica di un popolo misterioso scomparso da molti secoli: gli antichi Anasazi.
Come dico sempre: dietro ogni leggenda c’è un fondo di verità.

domenica 8 dicembre 2019

TECNOLOGIA ALIENA




Quando i ricercatori parlano di alieni, si riferiscono a individui appartenenti a una civiltà molto antica e tecnologicamente avanzata che interagiscono, sul nostro pianeta, con la specie umana. Questa interazione è tutt'altro che nuova, come talvolta sembrano indicare i documenti storici. Sebbene ci siano molte idee e opinioni sul luogo di origine di questa civiltà, nessuno ha ancora fornito prove decisive capaci di gettare  luce sulla questione. Uno dei fattori che si aggiungono al mistero è il modo in cui queste entità interagiscono: furtivamente, senza lasciare traccia o prove fisiche.
Roger Leir, chirurgo podologo e ufologo di fama internazionale, sosteneva di aver rimosso impianti di nanotecnologia aliena dai suoi pazienti. Leir, che è morto all’inizio del 2014, ha passato gran parte della sua carriera cercando di rendere lo studio degli UFO e dei rapimenti alieni una vera branca scientifica. Per le sedicenti vittime di rapimenti extraterrestri, gli interventi chirurgici di Leir rappresentavano un ponte tra le esperienze personali avute con forme intelligenti non umane e le prove necessarie per confermare la realtà di questi incontri. Gli scienziati più tradizionali, però, continuano a guardare con scetticismo al lavoro di Leir.

 
Quando il Dr Roger Leir iniziò il suo personale studio sugli impianti alieni, nel 1995, era incredibilmente scettico.
Una cosa è considerare l’esistenza di veicoli non identificati e magari extraterrestri che visitano la Terra – affermò - un'altra è credere che degli esseri umani vengano rapiti e usati per esperimenti a bordo di quei veicoli. Non riesco a credere che, per qualche ragione sconosciuta, in alcuni di questi rapiti siano innestati degli impianti. Insieme ad altri medici abbiamo eseguito degli interventi chirurgici atti a rimuovere questi impianti dal corpo degli addotti. Lo abbiamo fatto per curiosità, per dimostrare che tali oggetti, tassati come impianti alieni erano, in fin di conti, delle cose piuttosto normali. Tante volte ci era capitato di rimuovere dei corpuscoli dal corpo delle persone. Data la mia professione di podologo, ho potuto assistere  a una vasta e variegata quantità di elementi inglobati nei piedi della gente. Ho visto di tutto: carta, pietre, metallo, plastica, capelli, ecc.
Ma, sin dall'inizio della mia indagine sugli impianti alieni, ci sono state molte sorprese che hanno finito col cambiare il mio approccio al problema e ridefinito il mio modo di pensare. Oggi li accetto come parte della ricerca sulla fenomenologia UFO. Con il mio team abbiamo effettuato sedici interventi volti all’estrazione di questi “chip” e ci siamo imbattuti in casi molto interessanti.
Abbiamo fondato un’organizzazione no profit (A&S Research), questo ha reso la ricerca più semplice: abbiamo a disposizione un ampio team di ricercatori che si dedicano alla causa con onestà e impegno. I casi più interessanti riguardano due estrazioni di impianti alieni e ci hanno portato ad avanzare alcune teorie innovative.
il 15esimo intervento fu eseguito nel 2009, su un paziente maschio di cinquant’anni che, per questione di privacy, chiameremo John Smith. John venne da me lamentandosi di un dolore persistente alle dita dei piedi. Furono fatte delle radiografie dell'area interessata e fu trovato un piccolo oggetto metallico in una zona molto vicina all'osso. Durante il consulto, mentre gli mostravo le lastre radiografiche, Mr Smith iniziò a spiegarmi che mi aveva scelto perché mi aveva visto in innumerevoli programmi televisivi ed era venuto a conoscenza della mia esperienza con situazioni inerenti impianti alieni.
Un’altra cosa interessante di John Smith era la sua professione: era uno degli scienziati statunitensi a capo della ricerca sulle nanotecnologie. Appariva turbato: viveva un conflitto psicologico costante, causato dal suo senso “scientifico” che non gli permetteva di accettare l’idea di un rapimento alieno.           
Smith fu sottoposto a diversi e rigorosi esami preoperatori da parte della A&S Research; poi fu operato per eseguire la rimozione chirurgica del “chip” ed era in buona salute dopo la procedura. La cosa straordinaria, che ha reso il suo intervento chirurgico diverso dagli altri, fu che il suo oggetto, metallico, iniziò a sgretolarsi mentre lo rimuovevamo: andò letteralmente in pezzi. Rimase un frammento di metallo, che era stato evidenziato nel suo braccio attraverso i raggi X. Purtroppo, mentre eravamo in procinto di rimuoverlo, scomparì improvvisamente. Non fu rimosso, né cadde: scomparve letteralmente davanti ai nostri occhi. No, c’era alcuna spiegazione!
Non solo, ma 48 ore dopo la rimozione del corpuscolo metallico, abbiamo rimosso dal frigorifero la provetta in cui lo avevamo inserito. Il contenitore di plastica sembrava intatto e quando lo scuotemmo leggermente per rimescolare i frammenti, notammo  che questi iniziarono lentamente a riorganizzarsi nell'ordine e nella forma in cui li avevamo rimossi. Questo fenomeno, per i quale tutt’ora non abbiamo alcuna spiegazione, fu registrato in un video. Le analisi del tessuto organico che rivestiva il “chip” mostrarono l’assenza di processi infiammatori e come si è potuto osservare in altri campioni, si era verificata una crescita di cellule nervose che si erano insinuate nella struttura.
Per quanto riguarda, invece, l'intervento chirurgico di rimozione sul 16cesimo paziente, ebbe luogo nell'aprile 2010 su di un paziente di cinquant’anni, che chiameremo (in gergo) Ron Brandon. Ron aveva un acceso ricordo del suo rapimento, che si sarebbe verificato all'età di dieci anni. Ricordava di un viaggio, per un campeggio non lontano da dove viveva, nello stato del Tennessee (USA). All'epoca era con due suoi amici e sosteneva di aver ricevuto l'impianto in quella circostanza.
Ron rivelò che anche i suoi due amici erano stati portati a bordo dell’UFO ma avevano ricordi differenti di quell’evento. Il caso non fu indagato e col passare degli anni, lui e i suoi amici si persero di vista.
Trascorsero meno di due anni dal primo contatto alla rimozione chirurgica dell'oggetto. Ron mi aveva inviato delle radiografie e dopo averle analizzate con il team, abbiamo scoperto che il manufatto, metallico, si trovava nel polso, ovvero nella stessa posizione di un caso che avevamo affrontato in precedenza.
Prendemmo in carico il paziente, considerando Ron come un candidato all’operazione chirurgica e lo mettemmo in lista d'attesa. Purtroppo, ci vollero quasi due anni prima di reperire i fondi per operarlo. A complicare le cose, la persona che si era offerta di pagare tutte le spese, si tirò indietro due settimane prima della data prevista per l’intervento. Fu un duro colpo per il candidato e per l’A&S Research, che conta su di queste donazioni. Tuttavia, questo imprevisto attirò l'attenzione di Jaime Maussán, un famoso giornalista e ufologo messicano che dirige il programma Tercer Millennium [Terzo Millennio]. Maussán mi contattò chiedendomi ulteriori dettagli sul caso. Rimanemmo sorpresi quando si offrì di pagare, di tasca propria, tutte le spese se gli avessimo permesso di filmare l'intervento per il suo programma televisivo. Personalmente, rimasi entusiasta dell'offerta e iniziai immediatamente i preparativi con il team A&S.
Quando Maussán venne a conoscenza degli altri due rapiti (i due amici che erano con Ron Brandon in quel campegggio) si offrì di pagare le spese di viaggio pur di portarli in California, dove si trovava il nostro ufficio. Entrambi accettarono l’offerta ma, sfortunatamente, uno di loro, per problemi personali, non poté intraprendere quel viaggio.
Sia Ron che il suo amico (che chiameremo Dan Taylor) furono sottoposti a una sessione di ipnosi regressiva con Yvonne Smith. La seduta fu registrata in un video. La regressione diede i suoi frutti con Ron, mentre per  Dan si verificò un blocco che non poté essere rimosso in una singola sessione. Si riservarono di sottoporlo a un’altra seduta, in futuro, magari insieme al terzo membro del gruppo, ma non fu possibile farlo.
La regressione ipnotica di Ron rivelò il classico scenario di un rapimento alieno. Era in campeggio, aveva 10 anni e gli altri ragazzi, anch’essi coinvolti, avevano più o meno la sua stessa età. Trovammo interessante i loro racconti, ottenuti separatamente: rivelarono frammenti della vicenda che non riuscivano a ricordare senza l'aiuto dell'ipnosi. Uno diede un'ottima descrizione della superficie inferiore della nave, mentre  Dan ricordò di essere stato trascinato in un orto e, per qualche strana ragione, di aver raccolto e mangiato delle verdure.
Quando Yvonne condusse Ron a superare il blocco della tipica amnesia dovuta all’abduction, descrisse i tre ragazzi che fluttuavano in aria dirigendosi verso un oggetto che si librava sopra di loro. Fu interessante notare che descrisse i fatti con la mentalità di un bambino di dieci anni. Continuava a ripetere quanto fosse stato divertente fluttuare in aria. Era la narrazione, libera da pregiudizi e stereotipi, che non ci si aspetta da un adulto maturo. Ron continuò a descrivere l'interno della navicella e vennero fuori altri dettagli: riferì che fu sottoposto a una visita medica e descrisse la procedura utilizzata per inserirgli l'impianto.
Il 24 aprile 2010, Ron fu sottoposto alla procedura chirurgica per rimuovere l’impianto. L'intervento andò bene e il corpuscolo fu rimosso senza difficoltà. Fummo in grado di esaminare l'elemento al microscopio immediatamente dopo l'intervento chirurgico: ottenendone una visione molto dettagliata. La sua struttura sembrava essere la stessa degli altri oggetti metallici che avevamo già rimosso. Non c'erano segni di infiammazione e c’era presenza di tessuto nervoso nel campione.
Comparando i due oggetti: quello estratto dal corpo di John Smith con quello prelevato dal corpo di Ron Brandon, si poté notare una certa differenza: quello di John era cilindrico e circondato da una dura membrana grigio scuro. la membrana conduceva l'elettricità e crediamo, che fungesse da interfaccia tra il dispositivo e il sistema nervoso.
L'oggetto di Ron era più rettangolare ed era avvolto in quello che sembrava essere un tessuto epiteliale con vescicole (da 30 a 40 µm) contenenti un liquido oleoso giallastro, che sottoposto ad analisi spettroscopica infrarossa (FTIR) mostrava un'alta concentrazione di acido laurico. È stato descritto come un di o trigliceride dell'acido laurico, insomma, simile al​​l'olio di cocco. Sia l'acido laurico, sia l’olio di cocco, hanno proprietà antibatteriche ed è probabile che la funzione delle vescicole fosse quella di prevenire infezioni che potrebbero compromettere la connessione con il sistema nervoso. Entrambi i dispositivi erano collegati al sistema nervoso tramite i nervi propriocettori. Entrambi gli impianti presentavano delle strutture di nanotubi in carbonio. Pare che i nanotubi di carbonio, in entrambi i casi, fungessero da connessioni elettriche con i dispositivi.
Entrambi gli oggetti erano metallici, composti principalmente da ferro. Nel caso dell'oggetto John, un'analisi spettrometrica di massa (ICP-MS) mostrò che era composto da circa il 5% di nichel e presentava tracce di gallio, germanio, platino e iridio. Tutto faceva presumere che si trattasse di un oggetto fabbricato con ferro meteorico. L'oggetto di John aveva anche un guscio esterno. All’apparenza, sembrava madreperla, ma se osservato al microscopio, mostrava una composizione più simile a una struttura biologica dura, come un osso. L’analisi spettroscopica a raggi X indicò che il guscio era composto principalmente di calcio, silicio, carbonio, ossigeno, fosforo e zolfo. L’analisi isotopica eseguite dall'ICP-MS dimostrò una composizione non comune, tanto da propendere per un origine extraterrestre. Questo, almeno, fu il parere espresso dal Dr. Alex Moser. Le analisi EDX indicarono che i componenti principali dell'oggetto di Ron Brandon erano ferro, carbonio, ossigeno, alluminio, silicio e fosforo. C'erano anche zolfo, cloro, calcio, potassio e cromo, in quantità minori. Poiché non fu rilevato il nichel nel manufatto di Ron, fu esclusa anche la possibilità che fosse prodotto con ferro meteorico. L'elemento estratto dal suo corpo aveva anche una copertura esterna che si presentava lucida e nera se osservata al microscopio. L'analisi EDX indicò che era composto da carbonio, ossigeno, fosforo e ferro e conteneva dei fori, profondi circa 10 µm in tutta la struttura.
In entrambi gli impianti furono rilevati campi magnetici ed emettevano segnali radio. Il “chip” di Ron che si era sempre mostrato attivo mentre si trovava nel corpo dell'ospite, ma smise di emettere segnali radio entro pochi giorni dall'estrazione.
L'oggetto di John Smith era fragile e si ridusse in pezzi durante la rimozione. Si ritiene che questa fragilità fosse dovuta alla presenza di incrostazioni sui fasci di nanotubi in carbonio. Erano coperti con uno strato di materiale simile a quello che rivestiva il dispositivo. Al contrario, il manufatto di Ron Brandon sembrava avere una composizione più omogenea, senza incrostazioni visibili: era estremamente duro e non si riuscì a tagliarlo neanche usando un bisturi o una tronchese. Dato che non si riuscì a tagliarlo nemmeno con una macchina da taglio, fu inviato a un laboratorio dotato di apparecchiature laser per essere tagliato con un raggio ad alta energia.
I pezzi di entrambi i manufatti tendevano a ritornare nella loro posizione originale quando venivano messi insieme, probabilmente a causa dell’attrazione magnetica.
Robert Koontz, un fisico nucleare, ha elaborato una teoria matematica basata sul tasso di decadimento degli isotopi. Ha usato questa teoria, insieme ai dati provenienti da distanze astronomiche, per dichiarare che crede che gli oggetti estratti da entrambi i pazienti provengano da una galassia lontana – questo ci dimostra che possiamo imparare di più sui nostri visitatori esaminando gli oggetti che lasciano nei nostri corpi.
Nel suo rapporto sulla rimozione dell'impianto di John Smith, Koontz scrisse:


"Credo personalmente che sia lecito affermare che l'oggetto rimosso abbia tassi di isotopi non terrestri. Che sarebbe coerente con un artefatto costruito su un sistema stellare diverso dal nostro. Considerando che la perdita del 2,2% di isotopi di boro-10 dall'elemento esaminato era dovuta a un cattivo processo di cattura dell'elettrone che porta al berillio-10, l'oggetto potrebbe provenire da un sistema stellare che ha iniziato a svilupparsi circa 100 milioni di anni prima del sistema solare. È quindi plausibile che il presunto impianto provenga da una civiltà che ha avuto la sua evoluzione stellare circa 80 milioni di anni prima di noi."
Questi furono risultati preliminari, comunque incoraggianti, che ci aiutarono a conoscere un po' di più il fenomeno del rapimento alieno e anche chi lo pratica. Il fatto che i rapitori inseriscano chip nei nostri corpi può suggerire diverse cose. In primo luogo, possono, attraverso questi dispositivi, sapere dove sono i “loro” rapiti in qualsiasi momento, usando una sorta di geolocalizzazione. In secondo luogo, gli impianti possono anche avere la funzione congiunta di informare i rapitori sulle condizioni fisiche, i pensieri, il metabolismo, le reazioni emotive dei rapiti e chissà quant’altro ancora. Non dovremmo meravigliarci se degli umani vengano catturati e portati a bordo di navicelle aliene per inoculargli questi artefatti. Dopo tutto, anche noi prendiamo di mira animali selvatici in via di estinzione, li addormentiamo con freccette e poniamo su di loro dei dispositivi (collari) dotati di trasmettitori radio per sapere sempre dove sono e come ritrovarli in qualsiasi momento. Questo dovrebbe farci riflettere.
Molti ricercatori hanno cercato, negli ultimi vent’anni, di giustificare questi incontri ravvicinati del terzo tipo ma, in assenza di prove chiare di un incontro con forme di vita aliene, cercare spiegazioni alternative per le denunce non ha senso. Ma cosa succede se, invece, le prove materiali di questi incontri ci sono?


venerdì 6 dicembre 2019

50 SFUMATURE DI... GRIGI


Il 21 novembre del 1966  il New Chronicle riportò la vicenda, avvenuta in agosto, di una ragazza australiana, Marlene Travers, che affermò di aver visto una sfera argentata e luminosa, mentre, di sera, era uscita per passeggiare in un paese vicino a Melbourne. Un bell'uomo, alto, con gli occhi luminosi, vestito con una tunica metallica attillata, emerse da un'apertura laterale. Sebbene si esprimesse con una sorta di acuto lamento, capì per telepatia, che lui voleva che lei diventasse la madre di suo figlio. La condusse in una stanza in cui la luce appariva sfocata e cominciò a fare sesso con lei. Alla fine, la condusse fuori, ma lei inciampò e cadendo, si distorse la caviglia. Le amiche, a cui raccontò la sua insolita esperienza, la ritrovarono dopo sette ore con la caviglia lussata. Non le credevano e così lei gli mostrò un incavo nel terreno nel luogo in cui si sarebbe verificato l'atterraggio. In seguitò scoprì che era rimasta incinta.

 

 

Per non essere da meno, il National Tattler, il 2 aprile 1967, riferì di una certa Jean Sheldon, che mentre guidava tranquillamente su una strada del Michigan, ebbe l’idea di fermarsi per prendere "per una boccata d'aria". Fu allora che vide, a circa quindici metri d’altezza, un oggetto discoidale di colore rosso acceso, come il ferro fuso, sormontato da una cupola. Discese, e un'apertura si aprì nella parte inferiore, attraverso la quale fu tratta a bordo, come per levitazione. Qui incontrò tre umanoidi, nudi, maschi, con gli occhi verdi. Senza troppi preamboli, le dissero che volevano accoppiarsi e lei acconsentì. Trovò l’amplesso "molto eccitante", tanto da trattenersi con loro per oltre un'ora. A differenza di Marlene, Jean non rimase incinta.

 

 

Codelia Donovan, della California, ebbe la disavventura di incontrare sulla sua strada un uomo vestito in modo bizzarro: indossava una lunga tunica bianca. Guidava una Cadillac nera, le diede un passaggio, la rapì e la stordì con il gas. Si svegliò a bordo di un disco volante dove fu violentata.
Si racconta anche di un'altra californiana, Claudette Cranshaw che, mentre stava camminando lungo la spiaggia, nei pressi di Blanca, vide un globo luminoso dai cui sbarcarono e sei umanoidi che la inseguirono e la violentarono. In  seguito a questa sventura diede alla luce un bimbo di colore azzurro che, purtroppo, morì alla nascita.

 

Tuttavia, non sono solo le donne ad avere avventure erotiche con ufonauti. Eugene Browne, di Antrim, Irlanda del Nord, visse un'avventura sorprendente, che così raccontò. Nell'autunno del 1967 scrisse al Flying Saucer Review affermando che il 17 luglio precedente stava camminando in un bosco vicino a casa sua quando vide un oggetto piatto di colore grigio-blu, opaco, con una superficie esterna ruvida e porosa, sospeso a mezz’aria. Da un'apertura spuntarono, galleggiando nell’aria, due esseri di forma umana, vestiti con abiti argentei. Si posarono a terra e camminarono nel bosco, per poi rialzarsi, poco dopo e ritornare alla navicella.
Sembrerebbe il solito incontro ravvicinato ma, a quanto pare, la storia ebbe un risvolto inaspettato. Infatti,  l'estate seguente, Browne scrisse alla rivista Awareness, di Contact UK, per denunciare il suo rapimento. Affermò che la notte del 6 ottobre 1967, mentre rincasava tornando da un jazz club di Belfast, vide un velivolo nel cielo. Questo emetteva una luce gialla che gli “danzava” attorno e gli provocava delle vertigini, tanto da fargli perdere conoscenza. Si svegliò steso su un tavolo, era in una stanza oblunga, senza finestre, illuminata da una luce blu che proveniva dal pavimento. Era legato da bande metalliche attaccate a un apparato laterale. Quattro uomini e una donna gli si fecero intorno: avevano un'aura bluastra. Il più alto, vestito con una tuta scura, disse "finalmente qualcuno che lo farà" e lo liberò dai suoi legacci. La donna aveva lunghi capelli biondi, zigomi alti ed era di carnagione chiara, lentigginosa. Dall’articolo non si capisce se furono lasciati soli, comunque, dopo l’amplesso lei gli ha rivelato che provenivano da un'altra galassia e stavano sperimentando la possibilità di ottenere degli ibridi semi umani. Successivamente, fu di nuovo legato e gli fu detto che, di li a poco, sarebbero ritornati. Si svegliò in un campo, a circa un miglio da dove l’avevano prelevato. Riuscì a vedere l’oggetto che decollando emetteva un sibilo, mentre ritraeva il suo carrello a forma di treppiede.

mercoledì 4 dicembre 2019

LA DONNA ALIENA

Ricordate il caso di Antonio Villas Boas? Si tratta del contadino di Minas Gerais che fu catturato dagli ET all'alba il 16 ottobre 1957 (Cfr. A letto con l'aliena). Stava arando la terra con il trattore nella sua fattoria a San Francisco de Sales, quanto fu preso e portato su una nave per poi costringerlo a fare sesso con una donna strana. Claudio Tsuyoshi Suenaga, autore di un libro particolare, riuscì, nel 2002, a localizzare e intervistare personalmente parenti e amici di Antonio Villas Boas. Tra le molte altre informazioni, fu in grado anche di scoprire che, contrariamente a quanto era stato detto, questa donna non era esattamente una bellezza. Tutt'altro: era piuttosto brutta e persino ripugnante, come hanno dichiarato tutti i membri della famiglia di Antonio. I suoi zigomi erano molto larghi, gli occhi grandi e eccessivamente tirati e il mento abbastanza appuntito, così come la vediamo raffigurata nell'immagine.

martedì 3 dicembre 2019

LA DONNA RAPITA, MESSA INCINTA DAGLI ALIENI






Una storia incredibile quella di Giovanna Podda, che confessa amareggiata: "Non ne potevo più di sentirmi sghignazzare dietro le spalle a ogni passo, volevo solo raccontare quel che mi è capitato". 
Tutto è cominciato qualche anno fa, con una coraggiosa denuncia raccolta dalla trasmissione Mistero condotta da Enrico Ruggeri. 
Giovanna raccontò di essere stata rapita dai "Grigi" già all'età di cinque anni e anche in seguito, per decine di volte. Di essere stata sottoposta ad analisi e inseminazione. 
A sostegno della sua tesi pubblica su Facebook, una foto della sua mano che mostra i segni di una siringa di vetro a tre aghi curvi, con la quale gli alieni avrebbero prelevato la creatina. Nella foto si legge: 
 


"Forse è giunta l'ora di mostrarvi da dove i grigi ora prendono la creatina con una siringa di vetro a tre aghi curvi.... Dicono che da dietro il ginocchio non si può più perché si è formata una ciste. Volevano farmelo al collo poi hanno cambiato idea!"

 

 
Trattata come una cavia da laboratorio per dar vita a degli orribili esperimenti di ibridazione. 
 



"Sono rimasta incinta una ventina di volte, una di queste è andata male e il feto malformato è rimasto a casa mia"
 
Ricorda. Mentre dalla sua abitazione di Quartu, mostra l'autopsia dei resti del presunto feto.
Poi, indica come prove, tracce verdi fosforescenti e indelebili sul suo corpo, sul materasso, sulle pareti. Fino a quella che definisce la prova madre: la fotocopia di una tac che rivelerebbe l'anomala presenza di un oggetto non qualificabile impiantato nel cranio. 
Una vicenda a dir poco insolita, che ha provocato e provoca scetticismo a non finire e tanta ironia. Ma c'è chi le crede. A partire dal suo compagno, con cui convive da quando ha dovuto lasciare il suo paese natale. Ma non solo, poiché è stata chiamata a portare la sua testimonianza al convegno "Interazioni tra umani e alieni", in programma a Roma, che ha visto la partecipazione straordinaria di Trevis Walton, l'uomo rapito dagli extraterrestri. 
 



"Da quando frequento i convegni di ufologia non mi sento più sola, né pazza"
 
aggiunge Giovanna che riprende con il suo racconto.
 


"Sono rimasta vittima di sequestro da parte di un gruppo di extraterrestri, con tanto di astronave. Mi hanno portato in un luogo misterioso, sottoposta a dolorosi esperimenti. C'erano altri umani, soffrivano, cercavano di ribellarsi, ma erano inermi". 

 
Un racconto a cui il mondo scientifico non ha dato credito. Giovanna si porta appresso quella che dichiara essere una sacrosanta e cruda verità e non il frutto di una mente esaltata: c’è voluto molto coraggio per rivelare questa sua storia.
 
 
“Non sono l'unica a vivere simili esperienze - sottolinea - ma altri preferiscono tacere. Io sentivo il bisogno di rendere noto questo dramma, che sto vivendo. Per liberarmi di un grande peso e per far uscire altre persone allo scoperto. Invece mi si è appesantito il fardello. Ma non mi pento. Si vogliono tenere nascoste certe verità. Ma gli extraterrestri esistono e sono qua tra noi".

martedì 29 ottobre 2019

WOLVERINE


Jericho apre, una ad una, tutte le stanze. Chiude ermeticamente le finestre e tira giù le persiane. Giunge nel salone, da’ un’occhiata alla grande stanza: è vuota. Sono tutte vuote, ma lui non sembra accorgesi di nulla e prosegue imperterrito: deve chiudere tutto, prima che arrivi la notte. Ma il portone d’ingresso ha qualche problema: dovrebbe chiudersi e invece, non vuole saperne. Esce di casa, quella non è casa sua, e si ritrova su un lungo pianerottolo. Quel posto però gli è familiare: un intricato labirinto di scale che non sembra portare ad un ultimo ballatoio. Scavalca una ringhiera: è l’unico modo per raggiungere un’abitazione all’ultimo piano, che lui sembra conoscere. Nota che la porta socchiusa: la spinge ed entra. Una giovane donna è seduta alla scrivania, davanti al computer. Lui le siede accanto, guarda il monitor, riconosce quella pagina. Legge ad alta voce: - la leggenda di kuekuatsheu.
Lei si china per guardare meglio lo schermo: vi appare la figura esile di una giovane donna, bionda, carina. Poi, raddrizza la schiena: nel suo sguardo apatico non c’è più alcuna curiosità. Comincia a parlargli di una torta di mele, ma lui non l’ascolta, ormai non l’ascolta più: la sua mente vaga lontano, esplora territori arsi dal sole, palme, vicoli stretti e case basse e bianche. 
Qualcosa lo riporta alla realtà. Individua subito il telefono: nel buio, il suo schermo appare fin troppo luminoso e la suoneria lo innervosisce.
-          Pronto. Pronto? Pronto!
Nessuna risposta. Per qualche istante rimane come inebetito, poi fissa quel numero che non conosce. A quel numero, in rubrica, non è abbinato alcun nome. Guarda l’ora: 05:12.
Hanno sbagliato numero? No, è la seconda volta che succede e anche ieri erano le 05:12. Questa volta, però, non riattacca. Rimane in ascolto e dopo una serie di rumori confusi, riesce a sentire delle voci concitate. Parlano in arabo. Una delle voci è femminile, gli sembra di capire che la donna ha bisogno d’aiuto.
 

* * * * *
 
La valigia sul letto, un ultimo sguardo alla città: non ci sarebbe più tornato. Non ne sentirà la mancanza, in fondo, sono solo palazzi, strade, negozi: è così in tutto il mondo. Deve lasciare il paese, gli avevano detto la sera prima e senza neanche troppi preamboli. Gli Israeliani avevano modi spicci per allontanare gli indesiderati. Non gradivano che qualcuno ficcasse il naso nei loro affari, specie poi se si trattava di un militare.
-          Deve comprendere che siamo un paese in guerra e dobbiamo prendere opportune precauzioni.
L’ufficiale si sforzava, invano, di mostrare almeno un minimo di cordialità. L’avrebbero buttato fuori senza alcun riguardo, ma al tenente piaceva quell’uomo, ne aveva stima. Era un soldato, come lei, e i gradi se l’era guadagnati, ne era certa!
Lui, fece un sorriso finto, dimostrando, in quella circostanza, quanto poco fosse comprensivo. Si guardò intorno notando altri militari e agenti in borghese.
-          Tutto questo schieramento solo per me? – Chiese?
La donna, colta di sorpresa, si mostrò imbarazzata: aveva pianificato tutto con molta cura.
-          Posso chiederle chi seleziona il personale?
-          Cosa?
-          Non me ne voglia – aggiunse lui – ma tutto il personale femminile… Insomma, sono dei veri cessi! Non riescono a confondersi tra la folla.
-          Mi sembra una cattiveria gratuita, Mister… Debbo chiamarla Ariha, come la chiamano i palestinesi?
Replicò lei, senza nascondere un certo risentimento.
-          No, ma può chiamarmi Jericho, a modo degli occidentali.
-          Faccia buon viaggio Mr Jericho!
Non ci fu niente altro da aggiungere.
Lasciò la stanza dell’hotel, scese nella hall per pagare il conto e chiedere un taxi per raggiungere l’aeroporto.
-          Ariha!
Lentamente, si voltò verso la donna che era arrivata alle sue spalle.
-          È così, stai partendo.
-          Sì. Certo che, venendo qui, non mi rendi il compito più facile.
Lei scosse la testa.
-          Diciamo pure che non c’è un modo facile per dirsi addio. Posso accompagnarti all’aeroporto.
Non era una domanda: Berenice era una donna determinata.
-          Vieni. Saremo in buona compagnia.
Aveva notato come l’arrivo della donna non fosse passato in sordina.
Salirono sul taxi diretti all’aeroporto. Un auto si mise in moto e cominciò a seguirlo.
-          Hai notato?
-          L’ho notato – disse lei – vogliono assicurarsi che te ne vada.
Jericho annuì.
-          Tu, cosa farai?
-          Sopravvivrò. 
-          Sono preoccupato. Vieni via con me.
-          Io amo un uomo, te. Ma hai una famiglia che ti aspetta: non c’è posto per me.
-          Dimmi che sai cosa significhi per me!
Lo sapeva, ma finse, per non dar peso alle sue parole.
-          Non dimenticherò quello che hai fatto per…
-          No, per favore, sai come la penso.
-          Già! Gli arabi sono i nemici, i nemici dell’Occidente! Israele, invece, cos’è?
Un tempo avrebbe risposto che Israele è un alleato, ma non aveva più quella visione semplicistica delle cose.
-          L’ho fatto per te – rispose – ma aveva tutta l’aria di essere una scusa.
Neanche la donna sembrava esserne troppo convinta, ma non rispose. Intanto il taxi continuava per la sua strada. Jericho si voltò indietro, forse per vedere se li stavano ancora seguendo o solo per evitare lo sguardo di lei.
-          Scendo al prossimo incrocio.
Lui, si rese conto che erano vicini alla meta. C’era il rischio che la bloccassero, in aeroporto, che non la lasciassero entrare, oppure l’avrebbero fermata per interrogarla o perquisirla. La qual cosa lo avrebbe irritato non poco e avrebbe irritato anche lei. No, non era un bel modo per lasciarsi.
-          Vorrei darti un bacio.
-          Lo hai già fatto Ariha.
Sorrise. Quel sorriso gli ricordò dov’erano: doveva darsi un contegno. Un bacio, per quanto casto, sarebbe stato sconveniente.
L’auto accostò per farla scendere. Scese anche lui e le aprì lo sportello. Lei lo guardò con tenerezza e lui  si sforzò di controllare le sue emozioni.
-          Chiamami - disse lei.
-          Non potrò farlo: lo sai.
Lo sapeva, ma voleva almeno quest’ultima illusione.
-          Chiamami, non m’importa: succeda quel che succeda.
Si voltò lentamente e cominciò a camminare. Jericho la seguì con lo sguardo: lei non si voltò mai indietro. Lui, stette lì a guardarla mentre si allontanava, fin quando non sparì dietro un angolo.
 

* * * * *
 
Non gli capita spesso di tornare al Comando. Riesce a svolgere il suo incarico da remoto: telefono e internet sono più che sufficienti, di solito.
-          Ciao Jericho, è un piacere rivederti. Come stai?
Come stai. Un tempo si sarebbe limitato a rispondere: sto bene grazie. Così, quasi per abitudine, senza badarci, senza neanche pensarci un istante. Ma, da quando era tornato dall’Ucraina, non era più così. Quell’avventura gli era costata cara. Ora, ogni volta che sentiva quella frase rifletteva prima di rispondere. Pensava a quanto gli rimaneva ancora da vivere e a come avrebbe vissuto.
-          Sto benone  Toni.
-          Sì, ho sentito che hai ripreso a correre.
-          Corro per sette chilometri. Non è una maratona, ma è un bel miglioramento rispetto alla sedia a rotelle.
-          Sì ricordo.  Ma sei riuscito a rialzarti: hai la pelle dura!
-          Già!
-          Dormi bene adesso?
-          No, continuo ad avere degli incubi.
-          Gesù! Ma chi sei, Wolverine?
-          Cos’ha lui che io non ho?
-          Beh! Gli artigli di adamantio, per esempio.
-          Eh! Quelli mi avrebbero fatto comodo in certe situazioni!
Rise amaro. Sapeva di avere la stima di Toni, ma non ce lo vedeva a versare lacrime sulla sua tomba. Forse, era meglio smetterla con i convenevoli.
-          Veniamo al dunque – disse Toni, quasi indovinasse il suo ultimo pensiero – abbiamo rintracciato la telefonata. Viene da Israele.
-          Interessante.
-          Non scherzare Jericho, per i miracoli ci stiamo attrezzando!
-          Non mi dici nient’altro?
-          Abbiamo la traduzione. È una registrazione: un frammento di discorso. Qualcuno chiede a una donna: lui dov’è? E lei risponde di non saperlo.
-          Ma, il tono dell’uomo è minaccioso.
-          Sì. Ma la donna non sembra spaventata.
-          Infatti.
-          Pensi a lei?
-          Non saprei. Posso riascoltare la registrazione?
-          Certo. Ma prima, dimmi una cosa; da quanto non la senti?
-          Cinque anni. A settembre saranno cinque anni.
-          Quanti numeri di telefono hai cambiato in questi ultimi anni?
-          Lo sai: mi date voi le schede.
-          Sì, cambiamo il tuo numero, con una certa regolarità, più o meno ogni sei mesi.
-          Toni. Mandami laggiù!
-          Cristo Jericho! Non sei nelle condizioni!
-          Sto bene Toni. Sicuro!
-          Non può essere lei, Jericho.
-          Fammi ascoltare la registrazione.
-          Lo farò. Ma toglitelo dalla testa, non andrai in missione.
Jericho lo fissò serio.
-          Ricordi l’ultima volta? Ti dissi che era una cosa per i giovani, ma tu niente. Sei voluto partire lo stesso!
-          E sono tornato.
-          No, non sei tornato tu, ti abbiamo tirato fuori noi: è diverso!