Molto di ciò che sappiamo sulla magia ci viene dalle
ricerche compiute dagli antropologi presso le tribù di cultura arcaica. Salvo
qualche variante, dovuta a differenze culturali, la magia praticata da questi
gruppi contemporanei, dislocati in tutto il mondo, sembrerebbe fondarsi su
concetti che sostanzialmente non sono cambiati da 25.000 anni a questa parte. Temi
classici come l'animismo, la paura dei morti e i principi di magia imitativa e
contagiosa, sembrano esercitare sulle comunità dell'Oceania, dell'Africa e
delle Americhe dei giorni nostri, lo stesso ascendente che avevano sugli uomini
di Cro-Magnon. Alla base di tali credenze c'è la convinzione che in ogni cosa,
vivente o inanimata, alberghi uno spirito invisibile ben vigile e molto
potente. Quindi, quando un Indio dell'Amazzonia uccide un giaguaro, la cosa non
finisce lì, poiché lo spirito potenzialmente vendicativo dell'animale, deve
essere placato. Per la stessa ragione, un Ashanti del Ghana, non abbatte un
albero senza prima compiere un rito per placare lo spirito dell'albero. Un
metodo quasi universale per cavarsela, con le moltitudini di spiriti
invisibili, consiste nel costruire per loro appositi sacrari e se, uno spirito
può essere convinto a prendere dimora in un luogo sacro, è più facile
contenerne il potere. Con un po’ di fortuna, questo spirito “addomesticato” può
anche iniziare a prendersi cura della vita di chi ha costruito la sua sacra
dimora. È per questo che le tribù della Nuova Guinea, costruiscono regolarmente
piccole templi o case degli spiriti, provvisti di vivande, vicino al porcile di
casa, poiché se riescono ad attirare Nakondisi, "Lo spirito della
Foresta", questi vigilerà sui porci.
Dei molti spiriti, che popolano il mondo tribale,
nessuno è potenzialmente più fastidioso degli spiriti dei morti, i quali
possono essere anche la reincarnazione di spiriti di nascituri. Per molti, lo
stato di morte non sembra molto lontano dallo stato di vita, poiché i villaggi
sono popolati da generazioni di fantasmi coinvolti nelle vicende della comunità
come lo erano da vivi. In realtà, le uniche differenze importanti tra vivi e
morti, sono che i secondi sono incorporei e che, in talune culture, hanno molti
più poteri magici dei vivi.
In una società pervasa da tali credenze è naturale
che, colui che detiene la facoltà di comunicare con il mondo degli spiriti,
rappresenti un valore essenziale per la società in cui vive. Ogni tribù
comprende una persona di questo genere, chiamata, secondo i casi: stregone,
sacerdote, ngaga, saggio, houngan o sciamano. Quest’ultima parola, usata dai
Tungusi della Siberia orientale, è adottata dagli scienziati moderni per
designare i sacerdoti tribali. Lo sciamano della tribù, è maestro, mago della
pioggia, guaritore, veggente, protettore e principale tramite con il mondo
degli spiriti: senza di lui la tribù sarebbe perduta. La maggior parte della
loro attività magica, ricade in una delle due categorie accennate, ovvero la
magia imitativa (spruzzare acqua nell'aria per evocare la pioggia) e magia
contagiosa (scagliare una maledizione su un nemico). Lo sciamano comunica con
gli spiriti mediante la "Trance", durante la quale il suo corpo sembra
posseduto da uno spirito evocato per l'occasione. Un gran numero di antropologi
hanno assistito personalmente allo svolgimento di questi riti, riconoscendone
il potere. Solo alcuni di questi cosiddetti poteri, sono oggi spiegabili
scientificamente: per esempio, molte delle erbe curative tradizionali usate
dagli sciamani per secoli, hanno dato prova della loro efficacia nella ricerca
medica.
Per diventare “uomo di medicina” presso i Navajo
c’è un lungo apprendistato da seguire che dura moltissimi anni e in diversi
casi, queste persone collaborano attivamente, nelle riserve, con il Servizio
Statunitense di Salute Pubblica. La loro efficacia nel risolvere casi di
malattia, anche grave, ha dato risultati sorprendenti e negli ultimi anni, sono
stati condotti moltissimi studi clinici che confermano questi fatti.
Come in tutti i campi, anche in quello della medicina
indigena vi sono però delle vere e proprie devianze, un lato oscuro che solo
raramente viene reso pubblico.
Alcuni uomini di medicina integrano le loro
conoscenze con la magia nera e pratiche malvagie mirate a infliggere dolore,
sofferenza e morte ai propri simili. Così, l’uomo di medicina diventa uno
stregone che agisce sotto mentite spoglie e rappresenta un male per l’intera
comunità.
In casi estremi, lo stregone può acquisire un
potere enorme, domina la natura e le cose, la mente degli uomini, condiziona i
loro gesti. Per ottenere tutto ciò lo stregone deve compiere atti contro
natura, incesti, necrofilia, profanazione di tombe, omicidi, azioni malvagie e
terrificanti come uccidere un amico, un fratello, una sorella, un genitore. Più
il parente è stretto, maggiore sarà il potere acquisito.
All’apice del loro potere, gli stregoni – secondo
la credenza navajo – potranno trasformarsi in creature animali come lupi,
coyote, orsi, puma, o spostarsi da un luogo all’altro con la rapidità di un uccello,
potranno arrampicarsi sulle mesas e sui torrioni del deserto come linci,
potranno strisciare e nascondersi negli anfratti come rettili, o volare come i
corvi e le aquile: saranno diventati skinwalkers (in navajo: “yee-naaldlooshii” colui che cammina su quattro zampe).
Bisogna capire che nella tradizione navajo, la
capacità di trasformazione da uomo ad animale non è un concetto assurdo.
Infatti per la gran parte dei nativi americani e di molti altri popoli
primitivi, l’individualità di ciascuno non si ferma alla periferia della sua
persona fisica. Le frontiere sono estremamente labili, sfumate, possono variare
di molto a seconda che un soggetto possegga una maggiore o minore forza
mistica.
Si può dire che oltre alla parte fissata al corpo,
l’anima del primitivo possegga una parte libera, eccedente, la quale può
“attaccarsi” a questa o a quella cosa. Nell’idea dei primitivi, gli abiti, i
resti del cibo, le armi, gli escrementi o gli umori, gli oggetti che una
persona abbia prodotto , lavorato o anche solo toccato, possono trattenere
qualcosa della sua anima, sì da giungere occultamente ad essa,
indipendentemente dalla distanza spaziale.
Per la trasmigrazione dell’anima da un corpo
all’altro, lo stregone fa spesso uso di droghe e feticci. Le droghe sono il
vettore del viaggio psichico, il mezzo con cui l’anima si stacca dal corpo,
mentre il feticcio rappresenta la destinazione finale della trasmigrazione, una
specie di “indirizzo” verso il quale andare.
Molte volte l’invasamento o possessione spiritica
si verifica durante il sonno, durante il quale la parte sottile dell’essere è
ancora più libera da quella corporale visibile. In tali circostanze si può
verificare un trasferimento dell’anima nel corpo di un dato animale dando luogo
a una vera e propria bilocazione o bi-presenza.
Nei casi di vera e propria possessione invece,
l’anima viene scacciata dal corpo e sostituita interamente da quella dello
stregone. Detto ciò, è facile intuire come molti tipi di malattia o infermità
siano interpretati come fatture e malocchi, fino ai casi più seri nei quali la
vittima cessa di vivere, a volte senza un motivo apparente. Vi sono fatti
precisi – narrati da viaggiatori – di persone, che dormivano lontano, trovate
ferite e persino uccise nei loro letti.
Può anche capitare che sia la vittima stessa a
darsi la morte, suicidandosi.
Secondo la legge dei navajo, gli stregoni e a
maggior ragione gli skinwalker, sono persone che hanno rinunciato al loro
status di uomini e si sono asserviti completamente al male. Chi viene
riconosciuto come strega o stregone, può essere eliminato all’istante e nessuno
verrà mai incriminato per la loro uccisione.
Anche il navajo che trascuri un precetto sociale
può essere accusato di stregoneria. Lo stregone è quindi un sovvertitore dell’ordine
morale stabilito dagli uomini.
Alla pari degli antichi sabba del’600, i navajo
raccontano che gli stregoni si radunano la notte, fanno accedere i neofiti che
portano come scotto la prova di un omicidio, spesso di un familiare. Insegnano
a preparare un veleno fatto di cadaveri di bambini, a lanciare tutti insieme
maledizioni, a fornicare con cadaveri, a mangiare carne umana, nudi, mascherati
e ingioiellati, ognuno servito da un ragazzino ridotto a larva. Queste notti
infernali sono state descritte più volte dagli stessi indiani e i loro
resoconti assomigliano in maniera impressionante ai verbali dei processi della
Santa Inquisizione durante la grande caccia alle streghe in Europa e nel Nuovo
Mondo tra il XV e il XVIII secolo. In entrambi i casi si nota, da parte degli
accusati, la chiara intenzione di sovvertire la morale e di scardinare le
regole della società ricorrendo ai crimini e alle pratiche più nefande.
Le analogie tra due culture profondamente diverse
come quella cristiana europea e quella amerinda navajo, investono anche la
fenomenologia più estrema della stregoneria, la trasmutazione dell’uomo in
animale. Lo skinwalker navajo raggiunge la vetta della malvagità rompendo tutti
i tabù e si trasforma in lupo, coyote o gufo.
Presso i navajo, le pelli animali sono usate con
molta cautela, proprio a causa della magia che queste possono emanare una volta
indossate, soprattutto quelle di orso, coyote, puma o lupo. Le poche pelli che
vengono usate sono principalmente quelle di pecora, cervo e antilocapra,
animali erbivori e inoffensivi.
I navajo sono riluttanti nel raccontare ai bianchi
le esperienze avute con gli skinwalker.
Nei rari resoconti, si parla di incontri avvenuti
di notte, a volte di veri e propri attacchi alle abitazioni, con gli skinwalker
che cercavano di buttare giù la porta, battevano sulle finestre, camminavano
sui tetti delle case tentando di penetrare all’interno. In molti casi gli
skinwalker cercavano di provocare incidenti automobilistici attaccando gli
stessi veicoli durante la corsa.
Per paura che alcuni oggetti personali possano
essere usati dagli stregoni per costruire malefici, i navajo non lasciano mai
incustoditi abiti o scarpe e per lo stesso motivo, prestano molta attenzione a
dove sputano, orinano o defecano: anche i fluidi corporei possono essere usati
alla pari di capelli, unghie e vestiti per lanciare maledizioni e sortilegi.
Nel 1878, vi fu una vera e propria caccia alle
streghe che sconvolse la vita dei navajo nella riserva loro assegnata dal
Governo Federale.
L’1 settembre 1866, l’irriducibile Manuelito si
consegna alle truppe americane a Fort Wingate. È la fine della guerra, per i
navajo, ma è anche l’inizio di un lungo calvario nelle riserve. La loro
destinazione è Fort Sumner, noto anche come Bosque Redondo, un calcinato angolo
di deserto nel New Mexico dove la sola sopravvivenza è una scommessa che si
rinnova giorno dopo giorno.
Manuelito e i suoi raggiungono il resto del loro
popolo che due anni prima si era già arreso alle giacche blu ed era stato
deportato dopo una lunga marcia forzata in questa specie di lager dove la poca
acqua disponibile è malsana e il suolo totalmente improduttivo. La tubercolosi,
la fame , la dissenteria, i soprusi dei bianchi, la scarsità delle razioni
alimentari, i furti e l’ostilità degli altri inquilini della riserva (gli
apache mescalero) fanno il resto. I navajo cominciano a morire come mosche,
soprattutto i più deboli, vecchi e bambini.
Due anni più tardi, una delegazione degli uomini
più in vista della tribù ottiene il permesso di recarsi a Washington per
rinegoziare i termini della resa e ottenere una nuova riserva. Viene firmato un
nuovo trattato, uno dei pochi che non verrà mai violato e ai navajo è assegnato
il territorio delle montagne Chuska, nel cuore del loro antico paese. La nuova
vita nelle Chuska Mountains, però, non ridà ai navajo l’autosufficienza di cui
hanno disperatamente bisogno. La scarsità dei raccolti e una lunga serie di
calamità naturali li vincola sempre più alle magre razioni fornite dai bianchi.
Gli indiani seminano qua e là, vicino alle conche e alle rare pozze d’acqua, ma
non c’è alcuna sicurezza nei raccolti.
Durante la prima estate nella riserva, nel 1869, il
raccolto è ritardato a causa della neve primaverile e poi distrutto dal gelo.
Nel 1870 cade la grandine con chicchi grossi come uova; nel 1876 arrivano le
cavallette; nel 1878 e 1879 la siccità; nel 1880, il vento e la pioggia; nel
1881 ancora la siccità seguita dalle inondazioni.
Non sono annate eccezionali: è il clima della
riserva, quello di sempre. Solo che, per un popolo che anticamente viveva di
allevamento e razzie, era quasi ininfluente sulla qualità di vita. Ma ora
bisogna coltivare e seguire la via dell’uomo bianco che vuol trasformare
l’antico predone in un efficiente contadino. I bianchi non sembrano aver capito
che le Chuska Mountains non potranno mai diventare degli orti verdeggianti e
delle grandi colture irrigue. O forse lo sanno e di proposito, invitano gli
indiani a dissodare, seminare, irrigare; in un gioco perverso fino allo
sfinimento e alla disperazione.
Le razioni alimentari e i generi di supporto
inviati dal Governo Federale sono un’elemosina, i navajo indossano gli abiti
laceri smessi dai bianchi e i sacchi di farina recuperati dalle derrate
alimentari. Non vale nemmeno la pena costruire nuove case, si vive qua e là in
tuguri di frasche e fango, grotte, ripari naturali, buche nel terreno. Fame e
frustrazione portano molti giovani all’alcolismo che presto diventa una vera e
propria piaga per l’intera tribù. L’alcol inebetisce, fa dimenticare per un po’
la triste condizione del presente e se dopo rende incapaci di stare in piedi e
lavorare, comunque non c’è nessun lavoro da fare.
I navajo sono un popolo vinto, demoralizzato,
abbruttito dall’alcool e dalla miseria.
Ma non tutti se la passano così male. Alcuni
riescono stranamente a prosperare, accumulano qualche derrata alimentare in
più, posseggono animali da lavoro, sono “ricchi” per il semplice fatto di non
morire di fame e di stenti come gli altri. Si diffondono voci, sospetti e
invidie. Impossibilitato a riversare la sua rabbia contro i bianchi, il popolo
navajo la rivolge su se stesso come il cane idrofobo che si azzanna la coda.
Com’è possibile che il ritorno alla terra natia
dopo il calvario di Bosque Redondo si sia tramutato in un incubo senza fine? Di
chi è la responsabilità di tutto questo? Chi è che trama contro il suo stesso
popolo? La parola che viene sussurrata con odio e terrore da una rancherìa
all’altra è sempre la stessa: “iinzhiid”, stregoni!
Si comincia a indagare, interrogare, rovistare qua
e là alla ricerca di indizi e prove di stregoneria. Vengono riesumate dal
terreno, dov’erano state precedentemente occultate, ciocche di capelli, oggetti
personali e unghie di persone decedute negli ultimi tempi.
All’inizio dell’estate del 1878 la tensione nella
riserva è al massimo. Un’insensata orgia di sangue e violenza dove leadership,
parentele e amicizie si dissolvono all’istante come neve al sole. La caccia
alle streghe sta scivolando pericolosamente verso il baratro della guerra
civile e se non si interviene al più presto, per il popolo navajo è la fine.
Per fortuna, i vecchi capi riescono in breve tempo
a ristabilire la loro autorità grazie anche all’intervento dell’esercito che
disarma i più facinorosi e ricompone le diverse fazioni.
Oggi non sappiamo quante persone furono uccise
durante i disordini dell’estate del 1878, forse qualche decina, ma sicuramente
molte altri furono eliminati silenziosamente e lontano da occhi indiscreti
nelle zone più remote della grande riserva.
La paura degli stregoni e del loro malvagio potere
non si esaurisce con la fine dell’800. Presso molte comunità indigene del
sudovest essa è viva più che mai nonostante i lunghi processi di acculturazione
ed integrazione operati da istruzione scolastica e Chiesa.
I miti e le credenze dell’antica religione oggi
sono mescolati con il nuovo credo cristiano o sopravvivono in forma separata,
quasi un mondo parallelo nascosto nelle viscere del culto maggioritario.
Ma non sono solamente i navajo a credere nei poteri
soprannaturali degli stregoni e nella loro emanazione più perversa e
pericolosa, cioè gli skinwalker. Anche gli Hopi, i pueblos e soprattutto i
confinanti ute credono nella stregoneria.
Oggi negli assolati deserti del sudovest americano,
le leggende di misteriose apparizioni e di strani fenomeni, sono diventati il
pane quotidiano di ufologi e studiosi del paranormale, nonché il soggetto
preferito di molti scrittori e cineasti che qui continuano ad ambientare le
loro storie.
I nomi di alcune località nella zona dei “four
corners” come Kayenta, Sedona, San Luis Valley ed Elbert County sono diventati
dei classici per gli appassionati del mistero.
Se a volte è difficile spiegare la complessa
fenomenologia paranormale di queste località, è però molto più semplice tracciare
una specie di “profilo” che accomuna questi luoghi. Nella maggior parte dei
casi infatti, si tratta di zone rurali e selvagge, spesso desertiche, dove la
popolazione è ridotta e sparpagliata e con una densità media per Km quadrato
molto al di sotto della media nazionale. Il livello culturale e il reddito
medio pro capite sono fra i più bassi degli Stati Uniti.
In prossimità di tutti questi luoghi vi sono basi
militari più o meno importanti.
Ma una caratteristica accomuna, più di ogni altra,
questi “luoghi magici”: la forte presenza indigena.
Uinta Basin (Utah), Dulce (New Mexico), Kayenta
(Arizona), Sedona (Arizona), San Luis Valley (Colorado), Elbert County
(Colorado). Unendo con una linea immaginaria queste località otteniamo un
poligono che rappresenta l’antico territorio delle genti Navajo e Ute. E se
risaliamo ancor più indietro nel tempo, otteniamo l’esatta ubicazione
geografica di un popolo misterioso scomparso da molti secoli: gli antichi
Anasazi.
Come dico sempre: dietro ogni leggenda c’è un fondo
di verità.
I miti e le credenze dell’antica religione oggi sono mescolati con il nuovo credo cristiano o sopravvivono in forma separata, quasi un mondo parallelo nascosto nelle viscere del culto maggioritario.
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