Il 25/06/1966 sul quotidiano ROMA di Napoli e su altri giornali si leggeva l’articolo riprodotto in sintesi:”presso Brindisi, MISTERIOSI FRAMMENTI IN UN PODERE. Gli abitanti della zona affermano che sono caduti da un grande oggetto volante che avrebbe solcato il cielo. Misteriosi frammenti, di natura non ancora accertata sono stati trovati dal contadino Antimo Farina di 35 anni, in un podere della contrada S. Domenico, di Mesagne. Si tratta, stando alle descrizioni fornite, di oggetti cavi di forma cilindrica, come tubi, lunghi circa 30 cm e con un diametro di 12”.
Un mese e mezzo dopo tre componenti del CENTRO CLIPEOLOGICO PARTENOPEO si recano a Mesagne e su indicazione dei vigili urbani, ritrovano il posto in cui sono stati ritrovati i misteriosi tubi. E’ un terreno in cui crescono alberi di fico e d’ulivo. A prima vista, sembrava che qualcosa, cadendo su di una linea elettrica ad alta tensione, avesse provocato il distacco di uno dei cavi elettrici e che sia il cavo, sia l’eventuale “cosa”, causa della rottura, erano precipitati su di un ramo dell’albero di fico sottostante. Quest’ultimo si presentava spezzato, rinsecchito e in parte carbonizzato, mentre il resto dell’albero rimaneva normalmente vegeto e coperto da fogliame. Furono presi campioni di terreno e recuperato (staccandolo) un pezzetto del ramo annerito. Furono anche intervistati i contadini della zona; che confermarono l’avvistamento dei globi di fuoco. I tre ricercatori, furono ben accolti nella sede della GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO: Il direttore del giornale, gentilissimo, consegnò loro un reperto raccolto ai piedi del fico, che risultò essere identico a quello recuperato dal gruppo. Altri reperti del genere erano stati inviati a Bari per essere analizzati.
L’indagine sembrava conclusa e due componenti del terzetto investigativo tornarono a Napoli, mentre il terzo (G. Leuci) rimaneva in zona per motivi personali. Una settimana dopo, questi, venne a conoscenza del fatto che un macellaio di Mesagne era in possesso di uno dei misteriosi cilindri ritrovati nel campo e si adoperò per incontrarlo. Gli fu mostrato l’oggetto. Era un “tubo” liscio costituito da una sostanza apparentemente fragilissima, di color bianco latte. Accortosi della delicatezza con cui il Leuci maneggiava quell’oggetto, il macellaio volle dargli una dimostrazione della sua resistenza e presa una mannaia, la calò sul cilindro, colpendolo con forza. Non riuscì neanche a scalfirlo, mentre la mannaia riportava i segni dell’impatto!
Sordo a qualsiasi richiesta, neanche dietro offerta di compenso, il macellaio rifiutò di cedere l’oggetto.
Recatosi a Bari, il Leuci ebbe un’altra delusione: i reperti e le analisi effettuate presso la locale Università, erano stati requisiti dai carabinieri di Mesagne. Prima di ripartire fece un’ultima visita al macellaio, per cercare di recuperare almeno il cilindro; ma questi affermò, candidamente, che l’oggetto gli era stato rubato.
Non restava altro da fare che lavorare sul ramoscello staccato dall’albero e su quello raccolto ai suoi piedi dal giornalista della Gazzetta.
Ad una prima analisi, essi risultarono composti di silicati di ferro, alluminio e manganese! Quando raccontarono che si trattava di un rametto carbonizzato, staccato da un albero di fico, furono tacciati per visionari! La scienza “ufficiale” negava quindi l’origine organica dei reperti, giacché non contemplava l’ipotesi di una pietrificazione istantanea di un organismo vegetale. In quanto, se è vero che esistono numerosi esempi di foreste pietrificate (in America ma anche da noi, in Sardegna) è anche vero che questi processi di pietrificazione richiedono milioni di anni.
Un ulteriore ricerca su questi pezzi di color grigio verde circondati da una corteccia scura (l’aspetto era quello di un tronchetto carbonizzato) effettuato presso l’Orto botanico, non poté fornire alcuna indicazione, in quanto non si riscontravano analogie con strutture vegetali.
Quando raccontarono che si trattava di un rametto carbonizzato, staccato da un albero di fico, furono tacciati per visionari! La scienza “ufficiale” negava quindi l’origine organica dei reperti, giacché non contemplava l’ipotesi di una pietrificazione istantanea di un organismo vegetale.
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