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lunedì 10 settembre 2018

IO, SONO IL COLONNELLO


L’Onu si lava l’anima e spera di far calare un velo pietoso sulla storia di Srebrenica e della guerra nei Balcani, ma certe storie, ogni tanto ritornano. L’arresto di Radovan Karadzic, disse il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, «è un momento storico per le sue vittime, che hanno aspettato tredici anni che fosse portato davanti alla giustizia». Chissà cosa ne pensano le vittime di queste parole.
Tutte le donne di Srebrenica con i volti devastati dal dolore, gli occhi persi, sprofondati nell’orrore. Giovani mogli appena diventate vedove, madri che hanno visto sgozzare i propri figli. Ragazze violentate e derise, stuprate perché di etnia e credo religioso diverso da quello degli aguzzini. La più grande e infame strage nel cuore della civilissima Europa.

 

Una macelleria a cielo aperto: quasi ottomila morti, decine di migliaia di profughi. Tuttavia, un massacro annunciato, che la comunità internazionale (l’Onu, l’Europa, gli Usa, la Russia) non ha voluto o saputo evitare.
Era metà luglio del 1995. Srebrenica, che l’Onu aveva dichiarato «zona protetta», venne messa a ferro e fuoco dalle truppe del generale serbo-bosniaco Ratko Mladic. Radovan Karadzic, dal suo quartier generale di Pale (sulle alture di Sarajevo) seguiva in presa diretta tutte le fasi dell’assalto. Era una partita scontata, il risultato poteva essere uno solo: la disfatta dei musulmani-bosniaci.
La popolazione di Srebrenica era stremata da anni di assedio, isolata e scarsamente armata. I Caschi Blu dell’Onu, che avrebbero dovuto proteggere la popolazione civile, dimostrarono solo di voler salvare la pelle. Molti si dileguarono, altri si rinchiusero nelle caserme. Una pagina nera per l’Onu, una vergogna per i Caschi Blu olandesi.
Chi sfuggì al massacro vagò per giorni nelle campagne, nei boschi. Camminando per ore, sotto un sole impietoso, senza cibo né acqua. Migliaia di profughi si trascinarono dietro anziani e bambini. Gli uomini erano pochi: una moltitudine fatta di donne e di ragazzini. Per tutti la meta era Tuzla, nel Nord della Bosnia, città controllata dalle truppe del governo di Sarajevo. Lì l’Onu aveva installato una tendopoli.
 
 

Srebrenica rimase chiusa alla stampa. Karadzic e Mladic non volevano giornalisti tra i piedi, tanto meno telecamere. Forse speravano di poter in qualche modo nascondere l’impatto internazionale di quell’orrore. Da anni il mondo assisteva impotente alla pulizia etnica nei Balcani. I due leader di Pale si muovevano pressoché indisturbati grazie alla protezione del governo di Belgrado e forse, speravano di farla franca.
C’era un sodalizio con Slobodan Milosevic? C’è chi giura che i due macellai dei Balcani erano solo dei burattini nelle mani dell’uomo che guidava la Serbia. L’assalto di Srebrenica ebbe la luce verde di Belgrado? Difficile dirlo. Il massacro nell’enclave musulmana, "zona protetta" dell’Onu, segnò il punto più alto della strategia militare di Karadzic e Mladic, l’esibizione della massima potenza di fuoco e di efferatezza, ma anche l’inizio della loro sconfitta. Milosevic, da abile giocatore, li sacrificò come pedine sul tavolo della diplomazia internazionale: capì che era arrivato il momento di scaricare due ingombranti alleati.
L’occasione arrivò pochi mesi dopo, il 21 novembre del ’95. Alla conferenza di Dayton, l’uomo forte di Belgrado scaricò i "ribelli" serbi e poté sedersi al tavolo dove si decise la spartizione dei Balcani, si offrì all’occidente come uomo di dialogo, uomo di pace. Per ironia della sorte, il Time gli dedicò la copertina come uomo dell’anno: poi si sa come andò a finire con la guerra nel Kosovo.
 

 

La tendopoli di Tuzla accoglie i primi profughi, i funzionari delle Nazioni Unite e alcune organizzazioni non governative, lavorano allo stremo: una cucina da campo sforna i primi pasti caldi, centinaia di bottiglie di acqua passano di mano in mano. È una goccia nel deserto. Non c’è cibo né acqua sufficiente per sfamare gli oltre seimila disgraziati che affollano quest’area scelta come campo. È un campo di accoglienza ma, per assurdo, viene recintato in tutta fretta con il filo spinato. Un lager umanitario.
Le tende sono bianche e blu. Come i colori dell’Onu. I colori della vergogna, come senti dire da molti profughi. Come dargli torto? Da giorni si sapeva che le truppe di Madlic avrebbero sferrato l’attacco a Srebrenica, ma l’Onu non aveva fatto nulla per impedirlo. C’è rabbia, rancore, odio. Tutti vedono nei Caschi Blu i migliori alleati dei serbi, dei cetnici massacratori.
Le testimonianze dei profughi sembrano le sceneggiature di film dell’orrore. Storie di violenza indicibile, ma qui non c’è finzione. Sono le donne a parlare, a raccontare al mondo quel che hanno visto, quello che hanno subito. Gli uomini sono pochissimi e anziani. Le agenzie di stampa internazionale dicono che almeno quattromila uomini sono in fuga da Srebrenica, vagano nei boschi per sfuggire alla truppe serbo-bosniache. «Non è vero – sentiamo ripetere più volte – abbiamo visto uccidere i nostri mariti, sgozzare i nostri figli. Morti, sono tutti morti». Solo molto tempo dopo il mondo saprà che avevano ragione loro.

 

 

Alì non ha ancora compiuto quattro anni. Da quattro giorni non parla, rifiuta il cibo, beve solo un po’ di acqua. La sua storia me la racconta Azra Salchic, una vicina di casa. È lei che lo ha portato in salvo fino a Tuzla. «La sua mente è devastata - dice la donna indicando gli occhi del bambino - ha visto cose mostruose, che la mente umana non può dimenticare». Alì era con la madre e i due fratelli, di 15 e 17 anni, quando nella loro casa sono arrivati i miliziani di Karazdic. Chiedevano oro, volevano soldi. Arraffano quel poco che trovano poi afferrano il ragazzo più grande lo trascinano davanti casa e lo sgozzano davanti a tutti. Ridevano facendo roteare in aria il coltello rosso di sangue, dicevano alla donna: - bevi il sangue di tuo figlio, solo così puoi salvare gli altri due.
Il racconto di Azra si interrompe più volte. Tutt’intorno è radunata una piccola folla che ascolta in silenzio. Si sente solo il singhiozzo senza lacrime di alcune anziane donne. Alì è rimasto solo: anche la madre e l’altro suo fratello sono stati uccisi davanti ai suoi occhi.
Srebrenica nel luglio 1995 è sinonimo di gente ammazzata, di cadaveri  di dolore, di visi solcati dalle lacrime.

 

 

Srebrenica nel luglio 1995 è sinonimo di gente ammazzata, di cadaveri accatastati nelle fosse comuni. Ma non solo. C’è un altro capitolo odioso legato indissolubilmente alla logica della pulizia etnica e che riguarda lo stupro di centinaia di donne. Giovanissime ma anche donne più avanti negli anni umiliate, violentate perché bosniache, perché musulmane. Quante? Impossibile dirlo. Non ci sono cifre ufficiali attendibili. A Tuzla da una tenda all’altra i racconti degli stupri volano di bocca in bocca. Racconti agghiaccianti. Ci dicono delle “corriere dello stupro”. Quei pullman che portavano lontano da Srebrenica centinaia di profughe. Pullman militari.
Gli uomini di Karazdic vi facevano salire le donne, le portavano via dalla città distrutta e le abbandonavano a qualche decina di chilometri di distanza in mezzo alla campagna. Ma a quale prezzo! No, le sopravvissute non dovevano spendere soldi per fare il biglietto. Il costo della corsa era uno solo: il loro corpo; violentate più volte magari dagli stessi aguzzini che avevano da poco massacrato i loro mariti, i figli, i fratelli, i genitori. Un orrore nell’orrore.

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