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lunedì 5 agosto 2019

LA GRANDE CACCIA


Prima di iniziare la caccia i Capi scelero i cacciatori più bravi e veloci a cui affidarono il compito di attaccare per primi la mandria. Il loro bottino era destinato a tutti coloro che non erano in grado di provvedere a se stessi: le vedove, le donne non maritate i vecchi, i bambini e i malati. Insomma, tutte quelle persone che, per un motivo o un altro, non partecipavano alla caccia. Quella era la prima fase e solo dopo, quando i guerrieri avevano ucciso i primi animali per la comunità, la caccia diventava un affare individuale. Ciascuno sceglieva i suoi bersagli e cercava di abbatterli come meglio poteva, per suo conto e nel numero che riteneva necessario.
Quando gli indiani scorsero, in lontananza, la mandria di bisonti si tenne un conciliabolo sul modo di condurre l’attacco. Trovato l’accordo sull’azione di accerchiamento, i cavalieri, armati di arco, frecce e lancia montarono i loro cavalli appositamente addestrati alla caccia del bisonte e si divisero in due colonne prendendo opposte direzioni. Piano piano si disposero attorno alla mandria, a una distanza di circa due chilometri, formando un cerchio di indiani a cavallo equidistanti fra loro. I cacciatori si tennero sempre sottovento per evitare che l’odore dei cavalli e dell’uomo mettesse in allarme i tori adulti che coprivano i fianchi della mandria per proteggere le femmine e i vitellini che stavano al centro. Poi a un segnale convenuto, lentamente, i cavalieri strinsero verso il centro. Gli animali, che prima non avevano nessun sospetto, ora sentivano nel vento l’approssimarsi del nemico e si diedero alla fuga in una confusione enorme. Intanto gli indiani avevano stretto i ranghi in tutte le direzioni e formato una linea interrotta intorno alla mandria di bisonti che, terrorizzati, giravano in tondo scalciandosi e urtandosi a vicenda.
A questo punto iniziò la mattanza. I cavalieri scagliarono lance e frecce per trafiggere al cuore gli animali. I bisonti feriti spesso si lanciavano con furia contro i cavalli ferendoli mortalmente e costringendo i malcapitati cavalieri a una rapida fuga a piedi. Si salvavano solo grazie alla forza delle loro gambe. Qualche volta, il cacciatore, pressato da vicino da un bisonte inferocito, si toglieva il corto gonnellino e lo gettava sugli occhi dell’animale, cercando scampo nella prateria. Cacciare il bisonte non era facile. Era un’impresa che richiedeva un’abilità straordinaria e un coraggio enorme. Armati di sole frecce e lance, i cacciatori dovevano avvicinarsi a pochi metri da quei colossi muscolosi, lanciati al galoppo, per colpirli e abbatterli.

 

 

 

Dovevano colpire il bisonte sopra la spalla sinistra, per dar modo allo strale di raggiungere il cuore. Questo era il punto più vulnerabile. E' inutile colpirli alla testa perché hanno un doppio cranio e le frecce rimbalzano innocue su quei testoni corazzati. Neppure colpirli ai fianchi era garanzia di successo, perché se l’angolo d’impatto della freccia non era perpendicolare, la punta schizzava via sulla robusta pelle. Perciò i cacciatori dovevano accostarsi ai bisonti, mettersi al passo con loro, avanzando a zig zag per evitare di essere travolti dalla mandria in corsa e poi portarsi al centro della stessa per colpire le giovenche e i vitelli. Il momento più pericoloso della caccia era quando la bestia crollava a terra colpita a morte. A quel punto il resto della mandria, scartava bruscamente per evitare la vittima e continuando la corsa, nel panico, minacciava di travolgere cavallo e cavaliere. Per questa ragione i cavalli per la caccia erano addestrati ad allontanarsi subito dal bisonte abbattuto. Quando andavano a caccia gli indiani erano solito portare anche una lunga corda, che veniva lasciata pendere dietro le zampe del cavallo. Rincorrendo i bisonti poteva capitare di essere disarcionati e allora se si riusciva ad afferrare il lazo si poteva tentare di fermare il cavallo e rimontare in sella. Si evitava in tal modo di essere travolti e fatti a pezzi dagli zoccoli della mandria impazzita, che poteva correre ad oltre 50 chilometri l’ora.
Di solito gli indiani si procuravano la carne per la scorta invernale cacciando in autunno, quando gli animali erano più grassi. Si sceglievano le giovenche e i giovani vitelli evitando i grossi e vecchi tori la cui carne risultava immangiabile perché dura, stopposa e olezzante. Però si cacciava anche in inverno sia per avere carne fresca sia perché la pelliccia aveva maggior valore essendo il pelo più lungo e abbondante. Ma cacciare nella neve voleva dire fare a meno del cavallo. Gli indiani andavano a piedi servendosi di racchette da neve. Nascosti sotto una pelliccia di lupo bianco, si avvicinavano alla mandria quel tanto che bastava per colpire la preda con le frecce o con la lancia. Altre volte gli indiani aspettavano, nei loro villaggi invernali, riparati nelle valli, l’arrivo dei bisonti che si spostavano alla ricerca di pascoli non ancora ricoperti dalla neve. Quando veniva segnalata l’apparizione di queste mandrie occorreva che nel villaggio regnasse il silenzio più assoluto. Gli akicita badavano affinché tutti si richiudessero nelle tende, compresi i loro cani. Non si doveva tagliare la legna e si dovevano spegnere i fuochi. E se qualche bisonte si avventurava nel villaggio e sfiorava le tende, gli indiani, seppur affamati, non potevano abbatterlo, per paura di spaventare il grosso della mandria.

 

 

Uccise le bestie necessarie si lasciavano in pace tutte le altre. Solo allora i cacciatori si muovevano verso gli animali uccisi cercando di riconoscere le proprie frecce sui capi abbattuti per aggiudicarsene la proprietà. Anche le donne allora correvano eccitate da una carcassa all’altra cercando la bestia abbattuta dal loro uomo e riconoscibile dalle frecce ornate con le piume e i colori del clan. Ogni cacciatore aveva le proprie insegne dipinte sulle armi, per riconoscere quale bisonte ucciso gli appartenesse, spesso, si dovevano sedare liti e dirimere controversie quando frecce di diversi colori, dunque di diversi cacciatori, stavano conficcate in una stessa carcassa. Gli akicita valutavano con occhio esperto le frecce, esaminavano la bestia per veder quale freccia avesse inferto il colpo mortale e stabilivano a chi spettasse il bisonte o in quante parti andasse diviso. Terminata la caccia, le donne procedevano immediatamente alla macellazione e al trasporto della carne prima del tramonto del sole e prima dell’arrivo dei predatori della prateria. Intanto gli uomini si interessavano del recupero delle armi e alla cure delle ferite, proprie o dei cavalli. Per chiudere la giornata i capi e gli sciamani sceglievano l’animale più grosso e l’offrivano al Grande Spirito in segno di riconoscimento per quel cibo e di rammarico per quella morte. Poi, piantate le tende, seguiva la festa serale e la scorpacciata di carne di bisonte. Si formava un circolo attorno al fuoco centrale del villaggio, si pregava e si chiedeva perdono al Fratello Bisonte per avere sparso il suo sangue. Il massacro era stato necessario per assicurare la sopravvivenza della tribù. Tutti si impegnavano, per il futuro, a non uccidere più animali di quanti ne fossero necessari. La carcassa, dopo il rituale, restava all’aperto per molti giorni, prima di essere bruciata e le ceneri venivano sparse al vento della prateria perché, come semi, potessero assicurare la rinascita di molti altri bisonti.

1 commento:

  1. Un rituale che non esiste più: una necessità, ma anche una cerimonia. Alla fine della quale si chiedeva perdono al "fratello" bisonte: la sua morte era stata necessaria alla sopravvivenza degli uomini e si ribadiva il proposito di non uccidere più animali di quanti fossero necessari. Una civiltà integrata e rispettosa della natura. Quanto sembrano meschini, al confronto, gli odierni cacciatori.

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