Cerca nel blog

lunedì 28 maggio 2012

Gesù o Barabba: chi fu liberato?

La versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana (1976) traduce il verso 16 del capitolo 27 del vangelo secondo Matteo, tratto dal testo originale in greco della pagina 101 del Novum Testamentum Graece et Latine (a cura di A. Merk, Istituto Biblico Pontificio, Roma, 1933) nel seguente modo: “Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba”.
Mentre la Sacra Bibbia (Traduzione dai Testi Originali), edita dalle Edizioni Paoline nel 1964, lo traduce così: “Egli aveva allora in carcere un detenuto famoso, detto Barabba”.
Ancora, il Nuovo Testamento - Parola del Signore, pubblicato nel 1976 dalla Elle Di Ci (Leumann, Torino), traduce così: “A quel tempo era in prigione un certo Barabba, un carcerato famoso”.
Infine, il Nuovo Testamento, Nuova Revisione 1992 sul Testo Greco, della Società Biblica di Ginevra, traduce così: “Avevano allora un noto carcerato, di nome Barabba”.
Notiamo che le traduzioni sono abbastanza diverse e che tali variazioni possono produrre importanti discordanze nei significati. Questo prigioniero famoso era “detto Barabba”, “un certo Barabba” o “di nome Barabba”?
É sicuro che detto, da una parte e di nome o un certo, dall’altra parte, lasciano intendere due cose molto differenti. Nel primo caso Barabba sembra un soprannome, mentre nel secondo e nel terzo caso sembra trattarsi di un nome proprio: quel prigioniero si sarebbe chiamato proprio Barabba.
Non si tratta di una questione irrilevante ma, di uno dei problemi più delicati di tutta l’analisi della letteratura evangelica. Perché intorno al personaggio di Barabba, alla sua vera identità e al suo ruolo nel processo che Cristo ha subito dinanzi al procuratore romano Ponzio Pilato, si nasconde probabilmente una delle più importanti chiavi di comprensione del senso storico di quegli eventi.
Il testo greco usa il termine legomenon Barabban che si traduce con detto Barabba, chiamato Barabba, soprannominato Barabba, ciò lascia intendere che quello non fosse il nome proprio, ma un titolo o un soprannome.
Ma torniamo al Novum Testamentum e osserviamo una nota a piè di pagina che si riferisce proprio al verso 16 del vangelo di Matteo. Essa ci dice che dopo il termine Barabba alcuni antichi testi recano una lunga frase: “eicon de tote desmion epishmon Ihsoun Barabban, ostiV hn dia stasin tina genomenhn en th polei kai jonon beblhmenoV eiV julakhn”. Che viene tradotta comunemente in:  “il quale era stato messo in carcere in occasione di una sommossa scoppiata in città e di un omicidio”.
Ci accorgiamo che, traducendo gli antichi testi, è stata scartata una frase dalla quale si può capire che Barabba era stato arrestato in seguito ad una sommossa che si era verificata in città, durante la quale era stato commesso un omicidio. Chi aveva commesso l’omicidio? Se consultiamo il vangelo secondo Marco (Mc 15, 7), in un passo parallelo, possiamo leggere: “Un tale chiamato Barabba si trovava in carcere, insieme ai ribelli che nel tumulto avevano commesso un omicidio”.
Il verbo “avevano commesso” è coniugato al plurale, non al singolare e si riferisce ai ribelli, non a Barabba. La frase significa semplicemente che Barabba era rinchiuso nel carcere in cui si trovavano i ribelli, non ci obbliga a credere che egli stesso fosse un ribelle e che avesse partecipato al delitto.
La lettura dei vangeli sinottici, eseguita fedelmente dalle versioni in lingua greca, ci dà buoni motivi per credere che Barabba non fosse uno degli insorti che avevano commesso l’omicidio, ma solo che egli sia stato arrestato in concomitanza di una sommossa di cui altri erano responsabili. Ci dicono, tra l’altro, che costui non era uno sconosciuto ma un personaggio famoso.
L’osservazione più interessante la facciamo senz’altro nel momento in cui osserviamo la prima parte della nota 16 presente nel Novum Testamentum. Essa ci dice che in alcuni antichi manoscritti, al posto di legomenon Barabban (detto Barabba), troviamo quest’altra espressione: Ihsoun Barabban (Gesù Barabba). La nota ci conferma che il personaggio non si chiamava Barabba ma, che questo era un titolo: il suo vero nome era Gesù!
Sembra che nel corso di quel processo, durante il ballottaggio per la scarcerazione di un prigioniero, Pilato abbia presentato al popolo due accusati: un certo Gesù, che i sacerdoti avrebbero condannato a morte perché aveva osato definirsi figlio di Dio e un altro Gesù, noto a tutti col titolo di Barabba. Forse è proprio per evitare questa eccezionale omonimia che i traduttori hanno omesso il nome del personaggio che fu in seguito liberato, presentandolo solo come Barabba.
Ma si tratta di semplice omonimia? Qual’è il significato del soprannome Barabba?
Per giungere ad una risposta ritorniamo al momento in cui Gesù fu interrogato in casa di Caifa, il sommo sacerdote. Costui, non riuscendo a trovare un capo d’accusa valido (così narra il vangelo) ad un certo punto chiese a Gesù: «sei tu il figlio di Dio?» E Gesù rispose: «tu l’hai detto». Attenzione! La vicenda del processo davanti alle autorità ebraiche, così come è descritta dalla narrazione evangelica, tradisce la presenza di anomalie. Tutto lascia intuire che si trattò solo di un interrogatorio informale e sbrigativo, svoltosi nell’intervallo di tempo che separava l’arresto dell’uomo sul monte degli ulivi e la sua consegna alle autorità romane, presso le quali si ebbe il vero ed unico processo che sentenziò la condanna a morte di Gesù. Un processo, ricordiamolo, per sedizione.
Ora, noi sappiamo che gli ebrei, per motivi religiosi, non potevano assolutamente pronunciare la parola Dio e che il sommo sacerdote non si sarebbe mai azzardato a pronunciarla in  quella occasione. Ma se egli ha veramente posto quella domanda, allora in che modo ha potuto chiedere a Gesù se era il figlio di Dio? La risposta è semplicissima, gli ebrei usavano molti termini per riferirsi a Dio (Adonai, Eloah, il Signore, il Padre, etc.). Anche Gesù, nei racconti evangelici, parla spesso di Dio ma, rivolgendosi ad un pubblico di ebrei ed essendo egli stesso un ebreo, usa uno di questi termini: “il Padre mio”, “il Padre che è nei cieli”. Nel vangelo secondo Marco (Mc 14, 36) leggiamo: “Abbà, Padre, tutto è possibile per te”, in cui compare sia il termine tradotto (Padre) sia quello originale (Abbà). Ed ecco che per gli ebrei del tempo di Gesù il termine figlio di Dio poteva essere reso anche come figlio del Padre, ossia: bar Abbà. L’espressione bar Abbà, può essere condensata, e diventa così “Barabba”. Se prima abbiamo appreso che Barabba si chiamava Gesù, ora addirittura scopriamo che Gesù era definito Barabba! Ma quale razza di mistero si nasconde dietro questo intreccio straordinario di nomi e di titoli? E’ mai possibile che durante il processo Pilato abbia presentato al popolo due diverse persone: Gesù, che era detto figlio di Dio, cioè Barabba, che fu condannato e giustiziato e Barabba, che però si chiamava Gesù, che fu graziato e rilasciato?
Tutto ci induce a credere che le cose sono andate diversamente.
In primo luogo, non c’è mai stato un autentico processo davanti al Sinedrio. Cristo è stato arrestato per volontà di Pilato che ha inviato per questo una coorte romana sul monte degli ulivi, un corpo militare comandato da un tribuno.
Gli ebrei, se volevano, erano in grado di eseguire anche una sentenza di morte: lo testimonia lo stesso Nuovo Testamento (Giovanni Battista, l’adultera che stava per essere lapidata dagli ebrei, lo stesso Gesù che ha rischiato più volte la lapidazione da parte degli ebrei, Stefano lapidato dagli ebrei all’indomani della morte di Gesù, Giacomo lapidato dagli ebrei sotto le mura del tempio, etc.).
I romani non hanno mai avuto l’abitudine di applicare le amnistie in occasione delle festività di altri popoli non latini ma, solo nelle festività romane. Tantomeno sarebbero stati propensi a liberare, in Palestina, un condannato a morte per il reato di sedizione.
Pilato non era il tipo di rimanere lì ad aspettare che il popolo decidesse quale dei due doveva essere rilasciato, per poi lavarsene le mani e scarcerare il ribelle giustiziando un maestro spirituale: questa è una immagine assolutamente non veritiera e ridicola del praefectus Iudaeae; si legga Giuseppe Flavio per sapere chi e come era Ponzio Pilato.
Il popolo degli ebrei non ha mai gridato “il suo sangue ricada sopra di noi e sui nostri figli” (Mt 27, 25), preannunciando la persecuzione perpetrata dai cristiani contro giudei. Sono scuse palesi, per spostare la responsabilità della condanna dai romani agli ebrei. Questo infatti è uno dei presupposti della catechesi neo-cristiana, che ebbe origine nella mente di Paolo, il nemico di Simone e Giacomo, in aperta e stridente opposizione con la catechesi giudeo-cristiana, al prezzo di un grave pregiudizio antisemitico. Si sono travisati i fatti per aumentare progressivamente le distanze dall’ebraismo e trasformare l’aspirante messia degli ebrei nel salvatore cristiano.
Dal rebus di Gesù e Barabba scaturisce una ennesima conferma del fatto che i redattori dei vangeli neocristiani erano non ebrei, che non scrivevano per un pubblico ebreo e che erano interessati a de-giudaizzare il messia degli ebrei.
Non scaturisce, invece, una soluzione su chi siano state queste due persone. Erano veramente due? Si tratta di due persone i cui nomi, titoli, ruoli e responsabilità sono stati intrecciati e confusi negli interessi della contraffazione storica? Se Gesù Barabba è il prigioniero che fu liberato, dobbiamo credere che Gesù non è mai stato crocifisso, coerentemente con quanto sostenuto dalla tradizione coranica e da altre tradizioni?
Ci troviamo di fronte a una lunga serie di domande ma, non abbiamo le risposte.  

2 commenti:

  1. Chi erano queste due persone. Erano veramente due? Si tratta di due persone i cui nomi, titoli, ruoli e responsabilità sono stati intrecciati e confusi negli interessi della contraffazione storica?

    RispondiElimina
  2. Davvero un bel rebus.
    Chissà se il quinto potere ci permetterà di conoscere mai la verità.

    RispondiElimina