“Attorno al pianeta orbitava un satellite. Era un satellite piuttosto grande, mi venne da pensare che fosse stato trascinato fin qui dall’immane forza degli eventi.”
Ne I FABBRICANTI DI UNIVERSI si narra di un tempo in cui la Luna ancora non c’era, infatti, comparirà solo alla fine del romanzo.
“Il cielo notturno era illuminato dalla luce del piccolo astro, che chiamammo Luna, in onore del nostro pianeta.”
È solo fantasia? Nient'affatto! Venni a conoscenze di antiche scritture che narravano del tempo in cui la Luna non c’era e di altre cose peraltro molto interessanti che, di conseguenza, si potevano dedurre. Quelle che una volta erano considerate leggende, ora, lette sotto una diversa luce, appaiono credibili. L’argomento è lungo è complesso, nonostante l’abbia sintetizzato. Purtroppo, sul web tutto ciò che supera le venti righe, di solito, viene snobbato. Non mi resta, quindi, che riservare questi argomenti, trattati con il solito rigore scientifico, a quel centinaio di persone che mi seguono assiduamente e a tutti quelli che avranno la perseveranza di leggere l’articolo.
Nel 1872 George Smith raggiunse fama mondiale traducendo il racconto Caldeo del Grande Diluvio, le cui tavolette erano state trovate tra le rovine della biblioteca d’Ashurbanipal. Poi tradusse altre sette tavolette cuneiformi, anch’esse provenienti dallo stesso scavo, in cui si parlava della Creazione del sistema solare. Si tratta di un racconto sulle origini del sistema solare in cui, analogamente a come farà Esiodo in Grecia con la sua Cosmogonia, le grandi forze della natura ed i pianeti sono personificati e identificati con figure d’altrettanti Dei primigeni. Ne risulta una specie di racconto “in codice”, dove le azioni e le armi personali usate per le battaglie cosmiche sono in realtà descrizioni di eventi e di forze della natura. Questo racconto dimostra una conoscenza del Sistema Solare che, per i tempi in cui fu scritto, non poteva esistere, salvo che non fossero stati gli stessi “angeli” della bibbia a raccontarlo agli uomini nel linguaggio del mito.
Marduk e Tiamat sono chiaramente dei pianeti (Marduk è identificato da Z. Sitchin con il fantomatico pianeta Nibiru) e la loro battaglia celeste è il racconto di una collisione cosmica tra uno dei satelliti di Marduk (chiamato “il vento dannoso”) e un antico pianeta (Tiamat) di cui una parte del corpo smembrato fu posta “come un rivestimento per il cielo”, parole nelle quali molte persone hanno voluto vedere l’indicazione dell’origine della fascia degli asteroidi.
In effetti, secondo la nota legge di Bode (una legge che in astronomia fissa le posizioni delle orbite dei pianeti nel sistema solare), proprio un pianeta avrebbe dovuto trovarsi tra Marte e Giove, esattamente dove c’è adesso la cosiddetta fascia degli asteroidi.
Si parla ancora, nel racconto, di questo pianeta (Tiamat) fracassato, smembrato e diviso in due parti di cui però sappiamo solo quale fine ne fece una (la fascia degli asteroidi) mentre dell’altra parte, cioè del nucleo (il “suo sangue”, la “parte vitale” recisa da Marduk agli inizi della “battaglia”), il racconto non dice nulla, se non che “il vento del Nord lo portò via in un luogo nascosto”.
Questo “vento del Nord” (cioè che procede verso sud) può essere solo l’attrazione gravitazionale del Sole. Infatti la materia densa ed incandescente del nucleo, bloccata prima e sbalzata poi dalla sua orbita dopo la collisione, non può aver fatto altro che iniziare a “cadere” verso la stella centrale del sistema.
Ma il “sangue” di Tiamat non raggiunse mai il Sole. La Terra si trovò sulla sua strada, cosicché quei resti, una volta entrati nel suo campo gravitazionale, cominciarono a penetrare nella sua atmosfera.
Un enorme frammento crostale di solida roccia precedeva il nucleo di fuoco: fu questo immenso aerolite, con un diametro di oltre dieci chilometri, che favorì la penetrazione, ad alta velocità, dell’immensa massa di ferro fuso. Quando l’asteroide impattò la superficie terrestre, sfondò la crosta, aprendo una voragine che lasciò scoperto il mantello con un “buco” di almeno 500 chilometri di diametro: in questa voragine s’infilò un attimo dopo l’enorme massa di ferro fuso, che l’attraversamento dell’atmosfera dietro l’aerolite aveva reso affusolato.
La Terra a questo punto aveva due nuclei ed un’eccentricità tale che poteva portarla ad una distruzione completa, come quella che era appena avvenuta per Tiamat. Ma entrò in gioco l’ex satellite di Tiamat, che aveva seguito fin lì il nucleo del suo pianeta originario.
Il satellite entrò in un contatto radente con la Terra all’altezza della costa sud-orientale dell’Africa, scaricando una parte della sua immensa energia cinetica in una “frenata” cosmica al limite dell’impatto distruttivo.
La “frenata” fu tale che una parte di placca continentale, l’India, fu staccata dall’Africa, trascinata per 4.000 chilometri e scaraventata contro lo zoccolo asiatico. I fondali marini che stavano di fronte all’India, per effetto dell’immane e violenta compressione, si corrugarono e s’innalzarono verso il cielo per oltre dieci chilometri, formando la catena montuosa dell’Himalaya. Alle spalle dell’India, invece, il trascinamento violento di quel pezzo di crosta scoprì il mantello sottostante formando il fondale basaltico dell’Oceano Indiano. Il pianeta Terra ha conservato memoria di quell’evento con una scia di vulcani sottomarini ormai spenti tra Africa e India.
Dopo la “frenata” il satellite, ancora carico di residua energia cinetica, s’allontanò dalla Terra ma, ormai indebolito nel suo moto, non poté allontanarsi di molto. Dopo che la “strisciata” con la Terra gli aveva impresso un leggero moto rotatorio, proseguì ancora per poco più di 400.000 Km, poi la sua corsa mutò in un’orbita, a causa dell’attrazione gravitazionale della Terra. La Luna ebbe così un ruolo decisivo nel fare “affondare” il nucleo di Tiamat nel mantello terrestre prima, e nell’originario nucleo liquido poi.
L’ingresso del nucleo di Tiamat nel ventre della Terra fece letteralmente gonfiare e “scoppiare” il pianeta. Gli antichi mari - anche per il passaggio della Luna - si svaporano in un attimo, i loro fondali eruppero verso l’alto, la vecchia crosta silicea si spaccò e si fessurò in più punti e ciò che rimase integro cominciò a galleggiare come impazzito su di un oceano ribollente di roccia fusa. La forza gravitazionale del pianeta aumentò: il nuovo nucleo, da solo, rappresenta infatti quasi la metà del valore dell’attuale accelerazione gravitazionale.
Questa teoria non è contraddetta dai fatti, ma li spiega tutti perfettamente. Spiega anche perché la Luna è così massacrata di crateri da impatto su una faccia sola, che furono oltre tutto d’una violenza inimmaginabile. La Luna reca, infatti, i segni della catastrofica esplosione di Tiamat, 65 milioni d’anni fa, ed anche quelli della “frenata” sul nostro pianeta, che fece fondere le sue rocce su una faccia sola. La regolite, ad esempio, cioè quell’enorme quantità di polvere lunare sulla quale gli astronauti lasciarono le impronte delle loro scarpe, è costituita da pomice vulcanica, vale a dire una sostanza che non può provenire, come sostengono alcuni, da impatti meteorici ma solo da attività vulcaniche, che però sulla Luna non esistono più da almeno 4 miliardi d’anni. Quella pomice può provenire soltanto dalla Terra, catturata dalla Luna durante la sua “strisciata” sul nostro pianeta.
Il ricordo di questi eventi raggiunse la memoria oltre che dei Sumeri anche degli antichi Greci. Robert Graves nel suo I Miti Greci (Longanesi, 1963), citando Platone, Ippolito ed Eusebio, ricorda che Alcomeneo fu il primo uomo che visse nei pressi del lago Copaide in Beozia, prima ancora che vi fosse la Luna.
Tuttavia, un simile cataclisma non dovette consentire scampo ad alcun essere vivente sul pianeta, come testimoniato dalla grafite presente nelle argille del limite KT e da numerose altre prove geologiche. Qualcuno dovette dunque imbarcare, così come avrebbe fatto ancora Noè (Utnapistim), milioni di anni dopo, migliaia di coppie d’animali in una vera e propria flotta di navi spaziali interplanetarie, per trasferire pro tempore le specie animali e floreali terrestri su qualche altro pianeta.
500.000 anni dopo, quando il pianeta cominciava a stabilizzarsi e ad assorbire gli effetti della catastrofe, animali e piante furono reimmessi nel nuovo habitat terrestre. Tutti, tranne i giganteschi sauropodi, i grandi iguanodonti ed i grandi teropodi carnivori; animali di terra che non amavano l’acqua e che non potevano più vivere in un pianeta che, con la sua nuova gravità, li avrebbe schiacciati sotto il loro stesso peso.
Ecco un elenco d’alcune forme vegetali, attualmente viventi, “sopravvissute” alla distruzione cretacea:
Felci
· Angiopteris, erede della Danaeopsis del Triassico;
· Dipteris, dalla Clathropteris triassica;
· Matonia, pianta triassica;
Gimnosperme
· Ginko, pianta usata nell’arredo dei parchi, dal Triassico;
· Cycas, la “falsa palma” dei nostri giardini, pianta del Giurassico;
· Araucaria, conifera sudamericana, dal Giurassico;
· Sequoia, mitica conifera californiana, dalle foreste del Cretaceo.
Di queste piante, nessuna avrebbe mai potuto sopravvivere a temperature di 900° C su tutto il pianeta, a venti che soffiarono a 1.200 km/h e, men che meno, ad un lunghissimo “inverno nucleare”.
Non vedo peraltro in quale modo si possono comprendere queste piante nella teoria delle spore che resistono a tutto (alle temperature da altoforno - ben superiori ai 400° C - ed allo schiacciamento) per tornare poi a rifiorire al ritorno delle giuste condizioni ambientali. La teoria di Fred Hoyle di un universo inseminato da spore che viaggiano nel cosmo è assolutamente fondata in molti casi, come ad esempio in quello dei foraminiferi (Globotruncana e Globigena, ad esempio, che non a caso segnano il confine tra Cretaceo e Terziario) che, unici tra i protozoi, sono in grado di produrre spore con cui diffondersi - anche attraverso lo spazio interplanetario, come sosteneva l’astrofisico inglese - ma è altrettanto evidente che non c’entra nulla con i casi di piante su citati, salvo che non si possa dimostrare che anche le piante su citate sono rinate da spore giunte dallo spazio.
E gli animali? Dove poterono mai rifugiarsi squali, tartarughe, celacanti, meduse, molluschi come la neopillina (scomparsa già 400 milioni d’anni fa e ritrovata adesso nell’ecosistema di fondali marini geologicamente recenti), il limulo (scomparso già nel Giurassico e le cui tracce fossili ricompaiono solo nell’Olocene) e tanti altri ancora, quando gli antichi fondali marini (che sono oggi i grandi deserti della Terra) si sollevarono per oltre 2 km e le loro acque svaporarono in un solo attimo? E come fanno a trovarsi oggi in oceani che 65 milioni d’anni fa proprio non esistevano neanche?
Cosa dobbiamo pensare allora? È lecito supporre che “qualcuno”, che disponeva d’astronavi interplanetari, abbia potuto portare in salvo, fuori dalla Terra, flora e fauna? A dire il vero l’archeologia ha dimostrato, nonostante le controversie, la presenza sulla Terra di civiltà ad altissimo contenuto tecnologico, non solo 300 milioni d’anni fa, quando ancora non esistevano neanche i dinosauri, ma addirittura 2 miliardi e 800 milioni d’anni fa (mi riferisco alle “sfere” del Transvaal) quando sulla Terra non esisteva ancora neanche aria da respirare e ci si poteva camminare sopra soltanto come fecero, negli anni ‘70, gli astronauti americani sulla Luna, con tute pressurizzate e bombole d’ossigeno.